Rubrica a cura del dottor Claudio Rao
Chi volesse avventurarsi su un motore di ricerca per scoprire il significato del tema di questa settimana, potrebbe trovarsi di fronte ad una definizione simile a questa: «La sindrome di Calimero è un disturbo che porta l’individuo ad assumere un atteggiamento vittimistico in quanto vede ogni evento in maniera negativa e si sfoga con continui lamenti su se stesso e su ciò che lo circonda».
Calimero. Ricordate quel pulcino nero con un mezzo guscio bianco in testa? E la sua lamentela « È un’ingiustizia però! ». Non è difficile identificarsi con lui, da bambini ma anche da adulti, almeno in certe circostanze della nostra vita. Calimero infatti, incarna la realtà del disagio infantile che tutti abbiamo sperimentato. Tuttavia, trincerarsi dietro queste parole (“ce l’hanno tutti con me”) equivale a porsi come una vittima che soffre passivamente e spera nell’intervento salvifico di una persona amica.
Chi di noi è affetto dalla sindrome di Calimero tende a lamentarsi spesso, cosa che non sempre favorisce l’empatia del nostro entourage perché tali lamentele possono sembrare infondate quando non addirittura esagerate.
Cerchiamo di analizzare meglio il fenomeno ed offrire qualche suggerimento sul come uscirne.
Come riconoscerla
Potremmo individuare cinque segni che caratterizzano la sindrome di Calimero: il beneficio del reclamo, l’ingiustizia passata, la maschera sociale, la tendenza alla vittimizzazione e un radicamento nell’opposizione. Vediamoli più in dettaglio.
Primo segno: il beneficio del reclamo. Nella lamentela c’è un bisogno di esprimersi, di verbalizzare che ci permette di scaricare ed alleviare il disagio. Lamentarsi può essere un atto utile a ristabilire un equilibrio sia individualmente che socialmente. Esprimere a parole il proprio disagio inoltre è liberatorio e – secondo i ricercatori – può ridurre il rischio di sviluppare malattie psicosomatiche. Attraverso la loro franchezza, le persone con la sindrome di Calimero sembrano allertarci a reagire fronte l’ingiustizia. Tuttavia, quando l’autocommiserazione diventa ricorrente e ripetitiva e chi si lamenta ne fa un proprio modo di essere, un modo di esistere nella relazione, potremo ipotizzare la sindrome di Calimero. In effetti, alcune persone restano intrappolate in questa lamentela sull’esistenza e non riescono più ad esprimersi altrimenti, come se questo fosse diventato il loro unico modo di stare al mondo.
Secondo segno: l’ingiustizia passata. Potremmo dire che la sindrome di Calimero si riscontra in persone che si concentrano perennemente sulla propria sofferenza, provando una sensazione di disagio permanente. Un malessere che si manifesta con lamentele persistenti e la sensazione di essere vittime o incomprese. La loro necessità di costanti rassicurazioni può finire per esaurire emotivamente i propri familiari. Se volessimo spingerci a fare della psicologia spicciola, potremmo azzardare che questa difficoltà è legata alle esperienze infantili e probabilmente alla mancanza di ascolto e di adeguate rassicurazioni, generando in costoro un senso d’impotenza.
Terzo segno: la maschera sociale. Le persone che hanno questa difficoltà, tendono a ribellarsi per sciocchezze, ingigantendo eventi quotidiani insignificanti per silenziare il loro vero dolore. Un curioso modo di procedere, una sorta di meccanismo di difesa per chi vive questo disagio. Sono lamentele che celano una rabbia ed un’aggressività difficili da esprimere diversamente. Questo – non dimentichiamolo – rappresenta una sofferenza reale per la persona che si atteggia a vittima. Una maschera sociale che la porterà ad adottare l’atteggiamento infantile di un bambino che aspetta la consolazione, ergo non a segnalare l’ingiustizia sociale rilevata ma la propria insoddisfazione personale (danneggiando la propria immagine agli occhi di colleghi ed amici).
Quarto segno: la tendenza alla vittimizzazione. In queste persone, le lamentele tendono ad essere estremamente frequenti e riguardano sistematicamente argomenti superficiali. Potremo riscontrare frasi dal sapore persecutorio, tipo « Capita sempre a me! ». Le loro interpretazioni tendono alla negatività. Chi soffre di questo disagio pensa che la sfortuna lo perseguiti e teme costantemente le mancanze di rispetto e i dinieghi. Ha un’autostima molto bassa. Il ripetersi di questi comportamenti finisce per esaurire il proprio entourage e il rischio della solitudine è grande.
Quinto segno: la fissazione nell’opposizione. Vi sono tante variabili della manifestazione di questa sofferenza quanti sono gli individui che la vivono. All’origine del disagio c’è generalmente la ferita dell’ingiustizia, ma il dolore è profondo e consiste nel tenere l’altro a distanza, a volte anche attraverso l’insensibilità. Quando, ad esempio, l’individuo è cresciuto in una famiglia impegnata a combattere l’ingiustizia, avrà la tendenza a riprodurre questo schema. Molti non riescono ad accettare che le cose non vadano come vorrebbero. Altri, più nichilisti, sembra abbiano smarrito la capacità di stare bene ed interpretano tutto in modo negativo. Senza dimenticare chi si lamenta costantemente per essere al centro dell’attenzione.
Come trattarla
Potremmo suggerire quattro tappe per cercare di uscire da questa dolorosa spirale. Rassicuriamo subito coloro che temono di esservi condannati a vita: questa sindrome è perfettamente curabile. Ecco come migliorare la situazione.
- Impariamo ad esprimere il nostro disagio.
- Cerchiamo le nostre risposte.
- Impariamo ad accettarci.
- Facciamoci accompagnare.
- L’espressione del proprio disagio. Di solito, lamentarci non dà agli altri l’opportunità di offrirci una soluzione efficace. Dobbiamo imparare a bypassare l’autocommiserazione, focalizzando meglio il nostro problema. Continuiamo pure ad esprimere il nostro malcontento e le sensazioni d’ingiustizia, perché esternare ci fa bene ed è un procedimento virtuoso. Tuttavia, sostituiamo le nostre lamentele con una descrizione realistica di come ci sentiamo e del problema che stiamo vivendo! Questo ci consentirà di condividere efficacemente il nostro vissuto con chi ci sta intorno che quindi potrà fare qualcosa di concreto per aiutarci.
Trasformando il nostro reclamo in una richiesta concreta, non ci troveremo più nel ruolo del sofferente, ma adotteremo un atteggiamento positivo e intraprendente, favorendo uno stato emotivo stabile. I reclami legittimi, infatti, sono costruttivi e possono trasformarsi in azioni concrete.
- La ricerca di risposte personali. Il suggerimento è quello di iniziare a prenderci cura di noi senza aspettarci la soluzione dall’esterno o dagli altri. Cercando le nostre risposte al nostro problema.
Diventando indipendenti, trasformeremo l’atto di lamentarci in una nuova azione, come annotare i nostri problemi su un taccuino, oppure svolgendo un’attività manuale o legata al nostro corpo. Penso all’InterArt¹, metodo pedagogico-clinico per ristabilire un dialogo con noi stessi, ma anche favorire l’autocontrollo, in una funzione catartica e liberatrice. Oppure alla meditazione per radicarci meglio nel momento presente.
- Imparare ad accettarsi. Questa tappa può sembrarci la più impegnativa, soprattutto se non ci rendiamo conto di lamentarci continuamente. Un procedimento curioso ma efficace, potrebbe essere quello di filmare la persona che si lamenta sempre per poi analizzare insieme il video. Perché non va sottovalutato neppure il disagio di colui che vive quotidianamente gomito a gomito con chi soffre di questa sindrome! Bisognerà fargli capire che lo ascoltiamo, siamo recettivi, anche se non riusciamo a trovare soluzioni al suo caso. Per proteggerci, bisognerà arginarlo: la sua lamentela non può riversarsi all’infinito sugli altri. Questo contribuirà ad aiutarlo a prenderne coscienza, primo passo verso la soluzione del problema.
Chi soffre di questo problema, invece, ricaverà beneficio a parlarne con chi lo circonda. Inoltre, prendendo le distanze dall’idea che la vita è imperfetta, potrà gradualmente cambiare atteggiamento ed ascoltare con attenzione ed empatia una persona di cui si fida per trovare dentro di sé la forza per risalire la china.
- Farsi accompagnare. Le prime tappe per ricostruirsi potrebbero passare attraverso il riconoscimento del vero problema sotteso alle nostre lamentele, distinguendo tra ingiustizia ed insoddisfazione. Per questo sarà fondamentale riconoscere le ingiustizie passate che ci hanno “danneggiato”. È evidente che quest’ultima tappa non sarà possibile senza l’aiuto di un professionista dell’aiuto alla persona ed il percorso che concorderemo con lui.
¹ « Nasce per dare risposte utili agli individui che nella società attuale, sempre più esigente e aggressiva e testimone di un problema d’integrazione della persona nella sua unità biopsichica e socioculturale, vivono nei disagi, in quello stato di intimo dirty play che altera il ritmo emotivo espressivo e comportamentale. La Pedagogia Clinica per favorire l’autocontrollo riducendo le reazioni emotive troppo intense e sviluppare una performance negli adattamenti si è spinta con l’InterArt® a sperimentare connessioni dinamiche che appagassero un diverso gioco sinergico ». Guido Pesci, Marta Mani, Dizionario di Pedagogia Clinica, Armando Editore, Roma, 2022, pag. 184.
***Immagine di copertina: un frame dal seguente video su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=vnv2L8wolis
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