Di Sergio Ragaini
Nella prima parte di questo lavoro sui Cambiamenti ci siamo preoccupati di definire le condizioni e i passaggi relativi ad un Cambiamento. Mostrando che il “voglio” è prerogativa essenziale per un cambiamento, ma non è l’unica condizione che deve verificarsi: piuttosto, ne è solo un necessario punto di partenza.
Qui, invece, cercheremo, attraverso esempi, di mostrare quando i cambiamenti non avvengono, e perché. E quali condizioni non sono verificate.
Mostreremo anche quando i cambiamenti, di fatto, non sono così “voluti”, o, in qualche caso, sono impossibili da poter realizzare, per vari motivi.
Una panoramica, insomma, sui “cambiamenti mancati”, e sulle loro motivazioni.
Inoltre, verranno aggiunte altre riflessioni sul perché, talvolta, i cambiamenti non avvengono: magari per moti del tutto inaspettati.
Completerà il tutto un’analisi di altre motivazioni che impediscono il cambiamento… e che magari crediamo siano “propulsori” in quella direzione.
Dopo che, nella prima parte, abbiamo affrontato il tema del “Cambiamento voluto… ma non sempre attuato”, distinguendo vari casi, in questa Seconda Parte ci occuperemo, in particolare, di esaminare dei casi di “cambiamenti non avvenuti”, o “avvenuti ma poi non davvero espletati”.
Rifacendosi agli schemi indicati nella Prima Parte, sarà, spero, interessante capire cosa “mancava” in questi casi, perché tutto si potesse completare nel migliore dei modi.
Voglio… Ma prima ho delle cose da fare.
E… Non so quando le farò…
Oppure… le faccio e vado via.
Nella parte precedente di questo lavoro sui Cambiamenti abbiamo mostrato come, a meno che il cambiamento sia “subito” o quasi, il “voglio” è condizione fondamentale per cambiare. Per cambiare, insomma, occorre “volerlo”.
Qui, però, vediamo una condizione in cui il “voglio” è in realtà un “vorrei” mascherato da “voglio”. Perché ci sono dei “ma” che però non hanno mai una vera conclusione.
Questo è un altro schema piuttosto usuale in questi casi: è quasi una variante del quello del “vorrei ma non posso”. Nel senso che, qui, non c’è più un “vorrei” ma un “voglio”, però c’è sempre un “non posso”.
Quindi, c’è un’affermazione molto chiara: il “Vorrei”, infatti, è ipotetico, anche se, come dicevo, è mascherato da un “voglio”. E, subito dopo, ci si attende un “se..” o “se solo…”, come visto nel precedente articolo.
Il “voglio”, invece, è un’affermazione più “categorica”: lo si vuole e basta. Anche questo l’avevamo visto nella Prima Parte.
Tuttavia, potrebbe essere un’affermazione fittizia. Che, di fatto, nasconde un “vorrei”, mascherato.
In questo caso, ci sarà una forte discrepanza tra quanto si dichiara e quanto poi si fa tangibilmente.
Passo ora all’esempio, che farà capire diverse cose: un’amica, ormai da anni, parlando sempre male dell’Italia, dice “Io me ne voglio andare da qui”. Un’affermazione che è divenuta quasi un “ritornello”.
Questa affermazione può andare bene: non è un “vorrei”, che poi implica un “se”, o un “se solo…” ma è un “voglio”. Però, in questo caso vale come un “vorrei”.
Come visto nel precedente articolo, al “voglio” segue sempre un “pianifico”, vale a dire una sequenza di passi per poter effettuare quel cambiamento.
Quella persona, però, appare non pronta a compiere quel passo, aggiungendo il “ma…” di cui parlavamo nel precedente articolo.
L’amica in questione dice, infatti: “Io me ne voglio andare da qui… ma prima devo risolvere delle cose”, dichiarando però che, in caso di non soluzione, andrà comunque via.
Il suo schema è sostanzialmente questo:
- Io me ne voglio andare da qui
- Devo prima risolvere delle cose
- Se non le risolvo, vado via ugualmente.
Questo, in linea di massima, va bene: infatti, per poter andare in un altro luogo, occorre prima, come già visto nella Prima Parte, “chiudere i conti” con la realtà in cui si è.
Ad esempio, nel mio caso, io avevo detto: “Prima di fare qualsiasi cosa quest’estate, voglio prima finire il mio ultimo libro, e rinnovare la mia patente di guida”. Ritenevo infatti queste cose prioritarie prima di fare qualsiasi altra cosa.
Quindi, l’idea di “risolvere delle cose prima di andare via, prima di cambiare” è, in linea di massima, corretto. Nel senso che, prima di “chiudere” con qualcosa, occorre “chiudere i conti” con quel qualcosa. Se si lascia una casa, si chiudono eventuali pendenze economiche; se si lascia una ditta per andare in un’altra, si chiudono, salvo diversi accordi, tutti gli eventuali lavori che erano in sospeso (almeno questo si fa se si è corretti). Similmente, se si lascia un luogo, si chiudono tutte le cose in quel luogo, prima di lasciarlo.
E, poi, come detto nella Prima Parte, il “ma..” può fare parte del “Voglio…”. Dove, tuttavia, come si è fatto notare, questo “ma…” è relativo a cose che hanno, almeno a grandi linee, una scadenza. Dopodiché si passa ad un “Voglio, e quindi…”, e da lì parte la pianificazione vera e propria. Che, comunque, può ovviamente, e talvolta “deve” avvenire anche durante la chiusura delle attività nel luogo o nella situazione che si vuole lasciare.
Quindi, in questi casi, le cose hanno, come dicevo, un termine fissato. Io sapevo, ad esempio, quanto tempo, orientativamente, mi avrebbe richiesto il terminare il mio libro; sapevo quanto tempo mi avrebbe richiesto rinnovare la patente, e di conseguenza riceverla. Quindi, erano cose che avevano un termine fissato, seppur orientativo.
Nel caso di questa persona, però, il “ma…” non appare avere, nemmeno a grandi linee, una scadenza. Infatti, quelle “cose da risolvere prima di andare via” non si sa bene se e quando si risolveranno. Abbiamo visto, già dalla prima parte, che un “Voglio, ma…” deve avere un “ma…” relativo a cose che hanno, almeno a grandi linee, un termine massimo, una scadenza temporale.
Qui, però, questo “termine massimo” non appare assolutamente esserci: infatti, non si vede quando queste “cose da risolvere”, che sono tra l’altro piuttosto “vaghe”, si possano risolvere.
Segue, poi, un’ulteriore affermazione, che parrebbe comunque, di nuovo, trasformare un ipotetico vorrei in un “voglio”. Questa è: “Se però non le risolvo vado via comunque”.
Questa affermazione, in linea di massima, può andare bene: infatti, visto che il “ma…” precedente non appare avere un termine, nemmeno a grandi linee, viene detto che, in ogni caso, la partenza ci sarà, se quelle cose non si risolveranno.
Sin qui tutto bene. Tuttavia, anche questa affermazione non ha alcun termine, nemmeno a grandi linee. Se, ad esempio, venisse detto: “Se, però, entro due anni queste cose non saranno risolte, andrò via ugualmente”, allora questo avrebbe un senso: anche se a grandi linee, un termine temporale ci sarebbe. Magari, poi, i due anni potrebbero diventare qualche mese di più: tuttavia, l’idea, almeno orientativa, ci sarebbe.
Nel caso della mia amica, però, non appare alcuna affermazione in merito. Insomma: non c’è alcuna datazione temporale, tra “Se non risolvo” e “Vado via ugualmente”.
Matematicamente sappiamo molto bene che dove non c’è un limite superiore in un insieme questo limite vale infinito.
Questo vuol dire che l’atteggiamento posto non è un “voglio” ma, di fatto, un “vorrei ma non posso” mascherato da illusione di potere, e di avere una via d’uscita: che, però, non viene definita.
E che, tuttavia, ha la sua funzione di mantenere viva un’illusione possibile.
Vediamo, prima di parlare di questo, di riepilogare lo schema di questa situazione:
- Io me ne voglio andare da qui: Affermazione che sancisce una “volontà”.
- Prima, però, devo risolvere delle cose: Questo “Prima però…” che suona come un “ma…” dovrebbe avere un limite temporale, come visto nella Prima Parte. Però non l’ha.
- Se non le risolvo, vado via ugualmente: Questa affermazione potrebbe essere quella che, comunque, pone un “termine”, anche orientativo. Tuttavia, questo non viene fissato. Di conseguenza, come appena visto anche a livello “Matematico”, questo vale infinito, quindi non si raggiungerà.
Quando la mia amica lo diceva le prime volte, io ci credevo: ora, però, non ci credo più, perché ho capito lo schema mentale che c’è dietro a queste dichiarazioni: uno schema che non porta a nulla.
Inoltre, come detto nella Prima Parte, se ci si vuole spostare ci deve essere una sorta di “pianificazione”, rivolta in particolare verso il luogo dove si vuole andare.
Se osserviamo la vita della mia amica, questa parte dire esattamente il contrario di quello che nelle parole dichiara. Infatti, la sua vita è, tutto sommato, abbastanza “circoscritta”. Tra l’altro, nonostante siano anni che dice che vuole prendere informazioni relative al luogo dove vorrebbe andare, inclusa una visita all’ambasciata e al consolato, questo non è mai accaduto. Alcuni dati glieli ho passati io (anzi, tutti i dati che ha glieli ho passati io: lei non ne avrebbe nessuno). Lei, però, non ne ha fatto nulla, e non ha preso nessuno contatto. E sono trascorsi anni.
Dopo anni, insomma, la situazione della mia amica è sempre allo schema precedente.
Questo ci può fare affermare che questa persona non si muoverà, almeno in tempi prossimi (intendendo come tali anche anni), dalla sua situazione.
Credo che, vista la forte discrepanza tra le sue parole (“Io voglio andare via”) e le sue azioni (nessuna azione verso l’andare via), la mia amica non si sposterà, almeno in tempi mdio-lunghi. Poi, nella vita, tutto può ovviamente succedere!
Tuttavia… in alcuni casi
questo aiuta a sopportare situazioni…
altrimenti insostenibili
Tuttavia, questo meccanismo mentale può anche essere posto per “sopportare” situazioni altrimenti insostenibili.
Proviamo a riscrivere lo schema posto prima in questa maniera:
- La mia situazione mi è insopportabile. Questa è la prima certezza: la situazione attuale appare insopportabile, e non reggibile.
- Come “vorrei” andarmene da qui… purtroppo non lo posso fare, almeno per ora. Quindi, siamo in un “vorrei ma non posso”. Su questo “non posso” si può discutere, ma appare come un “non posso”. E quell’”Almeno per ora” non ha limite di tempo: quindi potrebbe essere un “per sempre”. Tuttavia, si lascia aperta la porta al sogno che, un giorno, tutto questo sarà possibile. Il fatto di dire: “Ho delle cose da risolvere”, ma non fissare alcuna scadenza, lo dice molto bene.
- Forse un giorno potrò andare via: E qui si tiene aperto il sogno: forse un giorno si potrà andare via. Questo giorno non è definito, non si sa quando e se ci sarà… tuttavia, è quel sogno che permette di sopportare un’esistenza che appare “squallida”.
Il fatto di dire: “Se non risolvo vado via ugualmente”, senza fissare un termine, anche orientativo, rafforza questo “sogno”: non posso spostarmi, o non ho l’energia per farlo. Un giorno, però, questo accadrà comunque. Non so quando, ma accadrà”.
Credo che questa sia la lettura corretta della situazione della mia amica: una non sopportazione della situazione in cui si trova, un forte desiderio di andarsene, che però, per qualche motivo, non può attuare, il sogno che, un giorno, questo desiderio si possa attuare.
Questo sogno è quello che permette, in quella situazione, la sopravvivenza. E permette di reggere qualcosa che, altrimenti, non si potrebbe reggere.
Nel caso della mia amica lo schema è proprio questo: “Me ne voglio andare (come vorrei andarmene, vale a dire “la mia situazione è insopportabile”, come si diceva prima) – Devo risolvere prima delle cose (ora non posso, e non so se potrò) – Se non risolvo vado via ugualmente (forse un giorno potrò partire, ma, ancora una volta, non so quando)”.
Questo significa: “Nessuna partenza… ma con il sogno, all’orizzonte, di potere un giorno partire”. Ed è proprio questo sogno che permette alla mia amica di sopravvivere.
Come visto prima, non c’è nessuna “spinta” verso quella direzione. Questa persona, nei fatti, non compie alcuna azione nella direzione della sua partenza: semplicemente, dichiara una volontà di andarsene, che come visto suona come un “vorrei ma non posso”, e usa questo sogno per sopportare una realtà che le è insopportabile.
E, se la destinazione orientativa l’ha (almeno sulla carta: poi ne ha più di una, e anche questo dice che non ha alcuna chiarezza di idee, necessaria, come visto nella Prima Parte, per spostarsi davvero), non sposta nessun tipo di energia verso quella destinazione: semplicemente, si limita a parlarne, magari in maniera ripetitiva.
Nel caso della mia amica, questo “Io me ne voglio andare da qui” è più che altro uno sfogo, come appena visto.
L’immagine che se ne può dare è quella di un gorilla rinchiuso in una gabbia, con sbarre lisce, inarrampicabili. Questo si scaglia contro le sbarre, magari urlando (ammesso che possa farlo): “Voglio andare via da qui!”. Tuttavia, sa benissimo che non ha alcuna possibilità di potere andare via davvero. Ecco: questa persona, di cui parlavo prima, è proprio in queste condizioni: si scaglia contro le sbarre, dicendo che vuole andare via. Oppure sogna di farlo davvero. Tuttavia, non andrà via, anche perché sta usando proprio quel meccanismo che non le permette di farlo.
Come dicevo, le parole e le azioni di questa persona appaiono in contrasto: sull’andare via, le uniche informazioni che questa persona ha, come dicevo, gliele ho date io. E, ovviamente, non le ha utilizzate. Poi, come sempre facevo notare, la sua vita appare in netto contrasto con questa “spinta” ad andarsene, anche per la vita, tutto sommato “circoscritta”, che porta avanti.
Sono, però, quelle condizioni, che, comunque, le permettono di sopportare al meglio la condizione in cui vive. Spesso, persone in condizioni terribili sono riuscite a sopravvivere proprio grazie al sogno di poterle cambiare. Non avevano nessuna possibilità di farlo, e nemmeno di intraprendere alcuna azione per farlo: e, di fatto, almeno a un certo livello di coscienza, lo sapevano anche loro: tuttavia, quel sogno, quell’idea che se ne sarebbero andate, permetteva loro di sopportare una situazione altrimenti impossibile da reggere.
Poi, magari, il cambiamento è giunto da fuori: ad esempio, una liberazione da una prigionia o simili. Chi era prigioniero, forse, ha potuto vivere quel tempo grazie a quel sogno.
In quel caso, quindi, l’azione della liberazione, il “sogno” ha preso forma: però, ha preso forma non grazie a un “voglio”, ma grazie a qualche azione “esterna”, che ha determinato il cambiamento.
Anche di questo parleremo nella Terza Parte.
Credo che questa amica sia nella stessa situazione di chi “sogna” per sopportare situazioni altrimenti insopportabili: lei non lascerà la situazione attuale, perché non è, materialmente, in grado di “andarsene” nemmeno per mezza giornata: almeno così appare dalla sua vita. Però, questo sogno del potersene andare, un giorno, la aiuta a vivere nella situazione in cui si trova.
Quella “nenia” contro il luogo dove vive le permette di sopportarlo meglio, con il sogno che quel luogo un giorno cambierà. Tuttavia, questo non potrà accadere, proprio perché non c’è, da parte di questa persona, nessuna azione tangibile in quella direzione. Tuttavia, questo sogno, questa illusione, le permette di sopravvivere.
In fondo la mente, molte volte, ha bisogno di illusioni per poter sopravvivere. Le illusioni sono quella forza vitale, quello slancio esistenziale, che permette alla persona di poter vivere.
La speranza, l’attesa, anche se sembrano condizioni che non hanno senso, sono quelle che possono dare sapore all’esistenza stessa. In fondo, se sapessimo il giorno della nostra morte, impazziremmo, anche se fosse tra decenni. Però, sicuramente, un “limite superiore” a questo giorno potremmo metterlo (ad esempio, nel 2150, verosimilmente, non saremo più su questo Pianeta, almeno nella forma attuale). Non sapere però quando questo accadrà, tenere questo problema “sullo sfondo”, come se non accadesse mai, ci permette di vivere. Anche se il fatto di non esserci più, un giorno, almeno nella forma attuale, appare una cosa certa.
Una visione di fatto “opposta”:
Contrapposta quasi a questa visione c’è quella del Maestro Zen Vietnamita Thich Nhat Hanh, al quale avevo dedicato un articolo per questo giornale, dopo la sua scomparsa, nel 2022. Il maestro, invece, puntava sul vivere il Momento Presente, senza speranza e attesa. Dicendo che il Momento Presente può essere meraviglioso.
Di questo parere era anche Anthony De Mello, autore del celeberrimo “Messaggio per un’aquila che si crede un pollo”. Questa immagine ha ispirato diversi miei lavori: noi, infatti, possiamo davvero volare: solo, non lo facciamo, perché forse qualcuno ci ha insegnato solo a zampettare sull’aia. Poi riscopriamo le nostre ali, e voliamo.
Avevo parlato in questi termini anche nel mio ultimo libro: “Apprendimento Naturale: “ritornare come bambini”… per “rinascere nuovi””. In fondo, noi abbiamo potenzialità enormi, che la Scuola e l’Educazione ci “sabotano”. E che possiamo, però, riprendere in mano.
Comunque, imparare a vivere il momento presente può aiutare: quando, però, questo è non felice, è forse importante riuscire anche a trovare delle “evasioni mentali”. Lo so, non saranno al 100% “consapevoli”, ma aiutano a vivere. Talvolta, un po’ di “inconsapevolezza” aiuta a vivere, e questo va tenuto presente!
Riprendendo l’esempio fatto nella Prima Parte, sulla scalata in montagna, il “vorrei ma non posso” può essere paragonato ad una sorta di “Voglio salire su una montagna “, ad esempio il Monte Rosa. Prima di farlo, però, devo essere preparato e devo avere l’equipaggiamento giusto.
Tuttavia, dopo avere dichiarato questo, la persona non fa nulla per prepararsi alla salita (magari con un po’ di corsa o simili) e non acquista o si fa prestare il giusto equipaggiamento. Qui, le parole e le azioni sono in netto contrasto (tecnicamente questo fa parte della cosiddetta “Dissonanza Cognitiva”).
In fondo, è esattamente come la persona che “se ne vuole andare da qui” ma non fa un solo passo in quella direzione, né vive in maniera da farlo capire. Come già visto, comunque, questo può aiutare a vivere, e a sopportare la situazione in cui si vive, se la si percepisce come insostenibile.
Tuttavia… alla fine, come detto poco fa, può avvenire un evento “esterno” che ci fa cambiare davvero. Magari inaspettato, magari improvviso… e magari provocato proprio dalla nostra energia nel desiderio di cambiamento. Qualcosa che ci porterà a cambiare.
Di questo parleremo nella Terza Parte.
Affrontare il nuovo:
lasciare il noto per l’ignoto
“Sappiamo quel che lasciamo…
ma non quello che troviamo”…
e questo può fare sorgere problemi.
Affrontare il nuovo, come dicevo anche nella Prima Parte, è sempre un problema. La mente, e con essa la persona, è abitudinaria: tra vari percorsi non sceglie il migliore, ma quello che usa di più. Si creano “connessioni” nei percorsi che si fanno, che si rinforzano ad ogni ripetizione. E queste connessioni ci portano a vivere situazioni a cui siamo abituati.
Insomma: nella prigione (mentale) dove forse viviamo, conosciamo ogni sbarra: al di fuori, è tutto ignoto.
In fondo, lo dice anche il proverbio, anche questo citato nella Prima Parte: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova”. Il proverbio, contrariamente a quello che alcuni pensano, non ha nessuna connotazione di “restare in un luogo”, ma dice una grandissima verità: quello che lasciamo lo conosciamo molto bene, anche se, forse non lo apprezziamo, mentre di dove andremo non sappiamo di fatto nulla: tutto è ignoto. L’ignoto spaventa sempre. Anche nelle cose più piccole.
La mente, insomma, si “abitua” a determinate situazioni, e da lì non si muove, perché ormai è abituata così. Si può, su questo fatto, proporre un esempio, relativo alla situazione di un mio amico:
Quando si vuole cambiare…
quando si odia il luogo dove si vive….
ma poi il cambiamento arriva…
e spaventa…
Odiamo un luogo, non lo sopportiamo più. Poi arriva il momento di lasciarlo… e questo non accade. Perché? La risposta è stata data poco fa: il luogo che dobbiamo lasciare lo conosciamo, anche se lo detestiamo, mentre quello in cui dobbiamo andare no: è del tutto ignoto.
Vediamo un esempio. Su questo, poi, faremo delle riflessioni, anche legate a quanto dicevamo nella Prima Parte di questo lavoro.
Il personaggio in questione è qui un amico. Questo amico è di origine Pugliese, e viveva nella zona del Lecchese. Odiava quei posti, anche per tristi vicissitudini lì avvenute.
Tuttavia, non se ne riusciva a staccare. Ogni volta che lo sentivo, mi parlava con astio di quei luoghi: dai quali, però, pareva proprio che non riuscisse ad andare via.
Poi, finalmente, ecco la decisione: acquista un appartamento in Basilicata. La Puglia, almeno dove voleva andare lui, era troppo cara. Quindi decide per la Lucania, comunque confinante. Fa quindi il Compromesso di Acquisto, con un acconto. Lo va a fare sul posto: quando è lì mi manda immagini, dicendomi che non vedeva l’ora di trasferirsi lì.
Dopo lunghe vicissitudini, dovute anche a del denaro che non riusciva a “sbloccare” (un problema di successione, detto a grandi linee), e che ha fatto sì che, tra il compromesso di acquisto, e il Rogito, intercorresse diverso tempo (nel quale, va detto il mio amico usava frasi del tipo “Io qui ci muoio”, che facevano capire quanto non sopportasse più il posto dove viveva, facendo capire l’intolleranza che aveva raggiunto verso quei luoghi) ecco finalmente il grande giorno del Rogito della casa. Dopodiché… totale “disco verde” verso la partenza.
Il rogito è stato effettuato un bel giorno di metà maggio. La sera stessa sento il mio amico, aspettandomelo entusiasta e desideroso di fare le valige.
Invece… me lo trovo mogio mogio. Parlo con lui lungamente, e sento in lui una profonda tristezza.
Mi faceva discorsi di nostalgia, pensando al bar dove, alla mattina, andava a prendere il caffè, e dove non sarebbe più andato. Mi raccontava del luoghi dove passeggiava, che non ci sarebbero più stati. La conversazione, durata oltre due ore, è stata quasi tutta su questo tono. Il mio amico era irriconoscibile: in lui, solo profonda tristezza, quando ci si sarebbe attesa gioia ed esultanza, e un vero “conto delle ore” che ancora lo tenevano nei luoghi dove si trovava.
Invece… niente.
Dove viveva, gli era stato concesso, in via eccezionale, essendo il suo appartamento stato acquistato da un’Agenzia Immobiliare, di continuare a risiederci, dietro pagamento di un affitto, nemmeno troppo “simbolico”, anche se non altissimo. Questo anche per i ritardi, che hanno fatto intercorrere diverso tempo tra il Compromesso di acquisto e il Rogito. Possibilità che gli era stata confermata anche dopo il rogito.
L’amico, quindi, permaneva in questo “limbo”, rimandando sempre la partenza. Passavano i giorni, passavano le settimane… e non si decideva a partire: era sempre lì, in quel luogo che diceva di odiare… ma che, venendo il “dunque” di lasciarlo, non si decideva ad abbandonare. I suoi discorsi erano vaghi, ma facevano capire che non voleva spostarsi (del tipo: “Ti sposterai entro giugno?”, “Ma anche prima! Devo solo definire alcune cose, poi vado!”). Continuava a vivere in un luogo, dove pagava un affitto, per una casa che un tempo era sua, ma ora non più (immaginiamo la situazione!), quando, in Basilicata, aveva una casa che lo attendeva, e aspettava solo di essere abitata.
Poi… ecco la magia dal “cilindro del prestigiatore”, l’evento che, finalmente, l’ha fatto partire. Dal “cilindro del prestigiatore” è “saltato fuori” un lontano parente, che si era spostato da quelle parti. Il mio amico l’ha contattato. Questo parente gli ha promesso di introdurlo nella vita e nell’ambiente del luogo dove doveva spostarsi. È bastato questo perché, in breve tempo, il mio amico decidesse finalmente di “fare i bagagli”, e spostarsi “finalmente” (è proprio il caso di dirlo!) verso la sua nuova vita.
Una situazione di questo tipo, direi piuttosto “emblematica”, merita un commento a parte. Anche alla luce di questo visto nella Prima Parte. Andiamo a farlo.
Commento:
(alla luce di quanto visto
nella Prima Parte)
Questa storia merita sicuramente una riflessione, direi piuttosto attenta. Infatti, si sono visti degli elementi, che andiamo di seguito a riepilogare:
- Il desiderio di andare via: Il mio amico “detestava” il posto dove si trovava, e non vedeva l’ora di lasciarlo.
- Al momento di andare via, riluttanza: Al momento, però, di andare via, di partire, ecco la sorpresa: il desiderio si trasforma in tristezza e nostalgia.
- Si apre una nuova vita in un nuovo luogo. La partenza avviene: Appare qualcuno che lo può introdurre nella vita del luogo dove il mio amico andrà. E così, il mio amico parte e si trasferisce.
Questo esempio è perfetto per lo schema che ponevo nella Prima Parte. Lo riprendo a grandi linee: Se ci si vuole spostare, di luogo e/o situazione, occorre:
- Smettere di investire energia e progettualità nel luogo, o nella situazione, che si vuole lasciare.
- Spostare tutta l’energia e la progettualità nel luogo, o nella situazione, dove si vuole andare.
Quindi, i passaggi sono due: smettere di progettare dove si vuole andare via, e nello stesso tempo progettare dove si vuole andare.
Nel caso del mio amico, è completamente mancato il secondo passaggio. Il mio amico, infatti, ha scelto casa quasi “alla cieca”, in base al budget che aveva a disposizione. Ha scelto un posto di cui non sapeva nulla, al punto che nella conversazione avuta con lui la sera del Rogito mi aveva chiesto: “ I Lucani sono simpatici, come persone?”: questo era un segno che, di fatto, non sapeva nulla del luogo dove andava (infatti la mia risposta è stata “Dovresti saperlo tu come sono i Lucani!”). Quella scelta, quindi, era dettata solo dal desiderio di andare via da dove abitava, piuttosto che dall’andare “consapevolmente” da qualche parte.
Finché ancora tutto non era definito, prevaleva ancora la voglia di andare via.
Quando, però, si è trattato di andare via “davvero” (e non solo “idealmente”), perché tutto era stato preparato, ecco l’”inversione di tendenza”: il mio amico si è trovato di colpo davanti a tutto questo: non aveva progettato alcuna vita nel luogo dove sarebbe dovuto andare. A quel punto, non poteva che giungere la nostalgia. Infatti, quando evochiamo un passato che non torna, pensiamo solo ai bei momenti.
Un esempio: io sono stato, di recente (almeno rispetto al momento in cui sto scrivendo) ad un Concerto a Pavia, città dove avevo studiato all’Università. Percepivo i momenti della mia vita da studente lì come molto belli, e ne parlavo con un’amica che era con me, percependo, al contempo, i grandi cambiamenti che Pavia aveva subito in quegli anni.
Tuttavia… quei momenti non sono stati tutti così belli! Tutt’altro (la mia vita universitaria è stata tutt’altro che così luminosa! Ne parlo nel mio libro “Esistenze Multidimensionali”)! Eppure, in quel momento, ricordavo solo il bello.
Per il mio amico era stata la stessa cosa: non avendo progettato nulla dove sarebbe dovuto andare, è intervenuta solo la nostalgia. Ricordava la sua vita a Lecco, rimuovendo la sofferenza e la tristezza, e facendo emergere solo i momenti sereni. E non si decideva a muoversi.
Qui vediamo molto bene come, se si va via da un luogo, o se lo si vuole fare, non occorre solo “rompere bruscamente” con quel luogo (a meno che non ci siano condizioni che ce lo impongono: di questo parleremo nella Terza Parte), ma anche progettare qualcosa nel luogo dove si andrà.
Poi, è ovvio: un po’ di nostalgia potrebbe esserci, al momento della partenza: tuttavia, si saprà già che si andrà verso un luogo che ci offrirà, almeno sulla carta, delle cose belle.
In fondo, il mio amico è partito quando è apparsa una “vita” nel luogo dove stava andando. E questo l’ha fatto finalmente andare.
Progettare dove si andrà è fondamentale, proprio per evitare di trovarsi, di fatto, “persi nel nulla”, verso un luogo del quale non si sa, di fatto, nulla. Lasciandone uno che, invece, anche anche se non ci piace è almeno noto. E dove, nel momento della partenza, emergeranno solo le cose belle, perché prevarrà la nostalgia.
Quando lo spostamento è solo una “fuga”…
e quando di fatto non ci si “integra”…
tutto potrebbe rimanere come prima…
o quasi.
Esperienza a Tenerife nel 2022
Nella Prima Parte avevo detto che, quando si cambia, occorre farlo “guardando avanti” e non “guardando indietro”. Questo dovrà essere tale anche nei cambiamenti che dobbiamo affrontare “nostro malgrado” (sarà, come già accennavo, l’argomento della Terza Parte). E lo deve essere anche nel caso di cambiamenti che, in qualche modo, “vogliamo”.
Ogni cambiamento, quindi, deve presupporre un “andare consapevolmente verso” qualcosa.
E, come visto sempre nella Prima Parete, un’integrazione nella Realtà Locale. Cosa che significa anche “entrare” nella Lingua locale, e comunicare con le persone del luogo.
Di fatto, se questo non accade, la persona non è “davvero” andata via, e continua a vivere come se fosse nel posto che ha lasciato.
L’esperienza che qui vado a citare è relativa ad un mio viaggio a Tenerife, avvenuto nell’agosto-settembre 2022: quindi circa tre anni fa, rispetto a quando sto scrivendo.
Ero stato invitato a Tenerife da degli amici, che si erano “spostati” là. La mia idea era quella di valutare anche un possibile trasferimento da quelle parti. Infatti, ero partito, una bella mattina del 5 agosto 2022, senza biglietto di ritorno. In effetti non sapevo quando sarei tornato. L’idea, in partenza, era di non tornare così presto, stando “in loco” per alcuni mesi almeno.
Poi, le cose non sono andate al meglio, e di fatto ho dovuto tornare, seppur senza gioia. Ne parlo nel mio citato libro “Esistenze Multidimensionali”, dell’agosto 2023, oltre che in un mio articolo per questo giornale, dal titolo emblematico: “Italia: fuggire o non fuggire?… questo è il problema”, pubblicato il 4 novembre 2022, non molto tempo dopo il mio ritorno da Tenerife.
Ovviamente, in questo testo, non voglio mettere in alcun modo in discussione la gentilezza e la simpatia dei miei amici: sono stati davvero molto gentili ad ospitarmi e a darmi la possibilità di “esplorare” quella, sicuramente interessante, realtà. Questo è sicuramente da tenere presente.
Voglio discutere, tuttavia, il loro “approccio” alla realtà locale, quella che stavano vivendo, secondo me piuttosto “antitetico” a quello che un approccio corretto di una Realtà nella quale ci si sposta dovrebbe essere. E lo andrò a dimostrare.
Quello che subito mi aveva stupito, giungendo a Tenerife dai miei amici, è stata la richiesta di uno di questi: “Ci insegni un po’ di Spagnolo?”. Io sono quasi trasalito: ho quindi chiesto: “Ma come, vivete qui ormai da mesi e non parlate la lingua Locale?”. Che, poi, era lo Spagnolo, quindi molto simile all’Italiano.
La risposta è stata che non la parlavano perché i loro amici erano Italiani: insomma, “non ne avevano bisogno”.
In compenso, avevamo incontrato un ragazzo Ungherese, che parlava correntemente Spagnolo. Eppure, veniva da una lingua ben più “diversa!” dallo spagnolo rispetto all’italiano!
Quando ho fatto notare ai miei amici che molta gente viene in Italia e parla dopo non molto la lingua Italiana, la risposta è stata che loro ne hanno bisogno, mentre lì loro frequentavano italiani, quindi non ne avevano bisogno.
Questo ancora una volta mostra lo spirito italico, quello che si ritrova in buona parte degli Italiani: nessuna apertura a qualsiasi cosa sia esterna al loro mondo, compresa Cucina, Cultura e così via. Essere in un luogo e non volerne parlare la lingua è secondo me incredibile davvero. Eppure stava accadendo sotto i miei occhi.
E decidere di cominciare a parlarla “solo quando se ne ha bisogno” dimostra una chiusura mentale: assimilare una nuova lingua (nei miei articoli sull’apprendimento Naturale ho suggerito di sostituire la parola “imparare una lingua” con Assimilare una lingua”) è comunque bello, e ci mette in contatto, se si vive in una nazione dove è la Lingua Ufficiale, con la Cultura del posto, permettendo integrazione e relazione. Decidere di non assimilarla significa decidere di relazionarsi solo con persone della propria Lingua (almeno in linea di massima). E questo, per chi vive in un altro Stato, è davvero molto triste!
In diverse circostanze ho parlato io spagnolo per loro. Visto che dopo tre settimane in Perù, dove ero stato ormai molti anni prima, lo parlavo: a me, lo ammetto, e lo dicevo anche nei miei citati articoli, lo Spagnolo è venuto del tutto naturale, come peraltro il Francese.
Tuttavia, si possono anche dire cose a parziale discolpa degli Italiani, riguardo alla loro chiusura verso l’assimilare nuove lingue (come ho detto anche in quegli articoli, preferisco sostituire la parola “apprendere una lingua” con “assimilare una lingua”: dà l’idea, che è quella corretta, di “naturalezza”). Nei miei articoli sull’apprendimento Naturale facevo notare come gli Italiani vengano “bloccati” a livello mentale, facendo loro credere che una Lingua sia un insieme di regole, e che occorra partire da quelle.
In fondo, come sempre facevo notare, anche nel mio libro “Apprendimento Naturale: “ritornare come bambini”… per “rinascere nuovi””, pubblicato nel giugno 2025, pare proprio che nella Scuola Italiana vengano inseriti “blocchi” che fanno credere che una Lingua sia qualcosa di difficile, una sorta di “montagna da scalare”. Mentre, come mostravo, è una naturale assimilazione di un nuovo meccanismo comunicativo.
Forse, tra i motivi per cui le persone Italiane rifiutano spesso di approcciare nuove lingue, a meno che non siano proprio costretti, è anche questo: gli hanno fatto credere che parlare una Lingua sia una cosa difficilissima, che per poterlo fare occorra imparare regole, costrutti, e così via: insomma, hanno insegnato che una nuova lingua è un insieme di regole da padroneggiare, invece che un flusso comunicativo naturale da assimilare, come in effetti è.
Come dicevo sia nel citato libro che negli articoli scritti per questo giornale, assimilare una nuova lingua è una capacità naturale che abbiano come nostra, che abbiamo utilizzato nei primi anni di vita… e che la Scuola ci ha “sabotato”.
Infatti, la stessa situazione dei miei amici, vale a dire il non parlare la Lingua Locale (lo Spagnolo, appunto) pareva comune a diversi Italiani che vivevano sull’Isola. I Belgi, invece, altra grossa Comunità presente sull’Isola, almeno nella sua parte Sud, parlavano correntemente lo Spagnolo: eppure venivano da una lingua ben diversa! Però, in quelle zone la fluidità linguistica è data come un diritto di tutti, non come un privilegio di pochi.
Di questo parlo anche nel mio primo video della Playlist sull’Apprendimento Naturale, caricata sul mio Canale Youtube.
Questo “rifiuto di assimilare la Lingua Locale, comunque, dice che i miei amici “non vivevano davvero” la Realtà del posto, ma, in qualche modo, continuavano a vivere a Tenerife come se fossero in Italia.
Questo lo si vedeva anche dal comportamento di almeno uno dei miei amici. Questa (era una “lei”) continuava a guardare video con il suo Cellulare, riferiti alla Realtà Italiana, e ad arrabbiarsi.
Io le ho ricordato più volte che, ormai, non era più lì: era a Tenerife, e avrebbe dovuto vivere quella Realtà, invece che continuare a pensare a quella da dove proveniva, e che ormai aveva lasciato. Lei annuiva… poi ricominciava a fare quello che faceva prima: pareva quasi una “compulsione”.
Quindi: nessuna voglia di immergersi nella lingua del posto, tra l’altro simile all’Italiano, e nessuna voglia di entrare nella Cultura Locale. Vivevano come se fossero in Italia.
Osservando la loro vita lì, questa appariva ben poco stimolante, e abbastanza “monocorde”, fatta sempre degli stessi gesti. Gesti che, come detto, non comprendevano alcuna “immersione” nella Cultura e nella Lingua locale.
Come ci si può aspettare, queste persone sono tornate in Italia. Qualcuno prima, qualcuno dopo. Ma (ovviamente) sono tornate. Quando non si vive la Realtà Locale, di fatto “non si è sul posto”, ma si è ancora da dove si viene.
L’atteggiamento che poi avevano, compresa la conflittualità interiore ed esteriore, va a dimostrare che quello che diceva Seneca a Lucilio, nella 28a delle Lettere a Lucilio di cui parlavo nella Prima Parte (“Animus debes mutare, non caelum”, vale a dire “Devi cambiare animo, non cielo”), è importante. Soprattutto quando di fatto il “cielo” si cambia solo formalmente, ma di fatto non si cambia, continuando a vivere come sotto il precedente Cielo.
Questa situazione ha mostrato davvero molto bene cosa accade quando, di fatto, “si cambia senza cambiare”, rimanendo attaccati, in tutto e per tutto, tranne che per la “geografia fisica”, al luogo da cui si viene, senza alcuna integrazione. Di fatto, si vivono le stesse situazioni del luogo di partenza.
Il ritorno, per queste persone, è stata quasi una logica conseguenza: di fatto, a Tenerife, non ci sono mai state!
Voglio promuovere la mia arte…
ma hanno i loro “sporchi giri”:
esperienza di un’amica…
e successive riflessioni
Quando si va in un posto, occorre tenere presente che si arriva… da sconosciuti. La prima cosa da fare, quindi, è cercare una comunicazione con la Realtà in cui si vuole andare. Tenendo conto, però, che questa ha determinate caratteristiche, che la contraddistinguono.
Passo a descrivere, qui, l’esperienza di un’amica, che poi andrò a commentare.
Questa mia amica, pittrice della zona di Bergamo, aveva detto che voleva andare a Berlino a promuovere la sua arte.
Era partita molto fiduciosa, sapendo che la Germania è luogo molto aperto all’Arte e alla Cultura in generale.
Dopo alcuni giorni che era giunta a Berlino, le avevo mandato un messaggio, per sapere come andava.
La sua risposta è stata piuttosto triste: “Hanno i loro sporchi giri”.
Qui è il caso di fare una riflessione. Ovviamente, “a caldo”, la mia amica, partita con tante belle aspettative, è rimasta delusa. E questo è stato il suo commento.
Tuttavia, quelli che lei chiamava “sporchi giri” sono solo le strutture locali, del luogo dove si va. Che non sono “sporche”: semplicemente, sono quello che sono. E hanno determinate caratteristiche intrinseche.
Ogni Stato, ogni ambiente, ha delle strutture interne, che determinano come alcune cose funzionano, Arte compresa.
Quando si va in un determinato posto, quindi, occorre, come dicevo nella Prima Parte, “pianificare”. E in questa “pianificazione” rientra anche vedere come sono fatte le strutture del posto dove si vuole andare, cercando anche la “chiave” per entrarci.
Questo non vuol dire che siano necessariamente cose “torbide”: sono, però, cose che hanno una struttura, con la quale occorre interfacciarsi.
Ad esempio, chi è stato in Francia per motivi Cinematografici, ha detto che lì si viene anche aiutati. Tuttavia, tutto passa da strutture centrali. Queste sono disposte ad aiutare chi ha talento: tuttavia, senza passare da queste, non si fa assolutamente nulla, nemmeno un Cineforum.
Se una persona, quindi, vuole andare a fare qualcosa di cinematografico in Francia, deve sapere questo, e sapere anche a chi rivolgersi. Sapendo, come ho detto, che senza questo passaggio non gli sarà consentito di fare nulla.
Più una struttura è organizzata, più aumentano i vantaggi… ma anche il problema di trovarsi ambienti più “strutturati”, nei quali occorre entrare, almeno per interfacciarsi con questi.
La mia amica era partita, di fatto, senza alcuna informazione. Ovviamente, arrivando a Berlino, ha scoperto che la Realtà aveva strutture che avevano le loro relazioni interne e le loro organizzazioni.
Questo evento avveniva alcuni anni fa, con una Rete meno “sviluppata”, e con l’Intelligenza Artificiale di là da venire. Oggi, anche grazie ai maggiori mezzi della Rete, si possono prendere “prima” i contatti necessari, facendosi aiutare anche dall’Intelligenza Artificiale, in modo che si sappia come sono organizzati nel luogo dove vogliamo andare. E vedere, ancora prima di andare, se potrebbe esserci interesse reciproco, cercando di prendere contatti con le varie strutture coinvolte con quello che vogliamo fare. Come dicevo già nella prima parte, in caso di mancate risposte, questo già potrebbe dirci che non c’è interesse. E farci pensare, magari, ad un’altra destinazione.
Ricordiamo, quindi, che l’idea “non aspettano che me” , quando si va in un altro luogo, non ha alcun senso: quella Realtà c’era anche prima di noi, e continuerà ad esserci che noi saremo lì oppure no. Occorre, quindi, non pensare di entrare “da dominatori”, ma di farlo “in punta di piedi”. Successivamente, potranno accorgersi di noi. Non subito, però! Credere che sia così ci farà trovare soltanto problemi!
Riflessioni conclusive:
tematiche più “ad ampio respiro”
Terminiamo questa Seconda Parte con un paio di riflessioni conclusive. Queste ci aiuteranno a riflettere su alcune tematiche più “ad ampio respiro”, al contempo facendoci comprendere che, quando si cambia, occorre farlo “davvero” e non “a metà”. Avendo il coraggio di passare davvero in una nuova Realtà, e non “lasciando aperta” anche la vecchia. Spesso, questa modalità non funziona.
Se poi accade, va bene così: tuttavia, non deve essere una prerogativa necessaria: quando si cambia, in linea di massima, si cambia tutto: e bisogna entrare in quest’ottica, perché il cambiamento sia “vero” cambiamento.
Prima di tutto ciò, però, facciamo una “piccola grande riflessione” su una tematica sicuramente importante. Noi odiamo qualcosa e pensiamo che questo ce ne separi. Invece… proseguiamo nella lettura e vediamo cosa per contro accade.
L’Odio: apparentemente “separa”…
Invece… lega!
Una delle cose che, in luoghi o situazioni che non ci piacciono, dove non ci riconosciamo, aiuta a “legarci”, invece che a “staccarcene” è proprio… l’odiarle. Ebbene sì, l’odio non ci aiuta a lasciare determinate situazioni, ma a permanerci.
Faccio un esempio, che è ancora quello del gorilla in gabbia: supponiamo che un gorilla sia rinchiuso in una gabbia, Supponiamo anche che questa gabbia abbia alte sbarre lisce, e sia aperta verso l’alto. Ovviamente, il gorilla non può arrampicarsi sulle sbarre.
Si scaglia allora con rabbia sulle sbarre, in segno di odio verso quel luogo. Tuttavia, sa che non può uscirne.
Poi arriva, in quella gabbia, un uccello, entrando dalla parte superiore. Osserva il posto e pensa: “Che brutto posto, andiamo via!”. Ciò pensato, vola via.
Ecco la differenza. Il gorilla odia quel posto, ma non può andarsene via. L’uccello constata che è brutto, e vola altrove. Non ha bisogno di odiarlo: semplicemente constata che non gli piace, e vola altrove.
Questo ci dice che l’odio, sostanzialmente, deriva dal dovere sopportare una situazione, non da poterla cambiare. Chi la può cambiare non la odia: semplicemente constata che non gli piace, e la cambia, la “lascia andare”. Chi la odia, è perché non la può cambiare, è costretto a permanerci.
Questo è l’odio verso un luogo: il doverci stare nostro malgrado.
Tutto ciò dice che il meccanismo si può anche invertire: se noi odiamo un posto, stiamo “sancendo” che ci staremo. Infatti, quell’odio ci terrà in quel posto. L’odio, come dicevo, è il sentimento di chi non può lasciare un luogo o una situazione, non di chi può andare via. Chi può andare via, semplicemente va via, dopo essersi eventualmente organizzato: non ha bisogno di odiare quel luogo o quella situazione: va altrove.
Se, quindi, noi odiamo un posto, stiamo affermando, di fatto, che non andremo via da quel luogo. Infatti, stiamo affermando, col nostro sentimento: “Noi siamo costretti a permanere in quel luogo”.
Odiare, quindi, è il modo migliore per non cambiare, per rimanere bloccati in un luogo o in una situazione.
L’odio, quindi, è deriva dal dover permanere in una situazione nella quale non ci sentiamo bene, e che non ci rappresenta. Dal momento in cui odiamo un luogo o una situazione, quindi, abbiamo già, in qualche modo, stabilito la nostra permanenza lì. Quando smettiamo di odiare, arriva il momento delle soluzioni. L’odio ci mantiene fermi sul problema, invece che farci vedere delle possibili soluzioni. Che, con l’odio, non vedremo, perché l’odio stesso continuerà a farci vedere il problema, non la soluzione.
Ora passiamo ad affrontare un problema a cui accennavamo anche prima: scegliere significa lasciare quello che si faceva prima. E questo è importante da ricordare.
Ogni scelta implica una rinuncia:
non capirlo, significa rimanere in tante cose…
e non farne nemmeno una
Ogni scelta comporta una rinuncia: quando si cambia, infatti, occorre sapere che quella cosa che abbiamo lasciato non ci sarà più nel nostro Divenire. E accettare la cosa. E questo, del cambiamento, spesso preoccupa. In generale, se scegliamo qualcosa, sappiamo che quello che non scegliamo sarà “lasciato andare”. Infatti, la parola “decidere” deriva da “de-cedere”, vale a dire “tagliare fuori”. Quando scegliamo, “tagliamo fuori” quello che non scegliamo.
Quelli che non accettano questo, di fatto rimangono in tante realtà, senza vivere una. È come guardare la televisione facendo un eterno “zapping” con il telecomando, senza mai decidersi a vedere un programma piuttosto che un altro: non vedremo, di fatto, nulla.
Ad esempio, durante i Giochi Olimpici Invernali del 2010 a Vancouver ero abbonato a Sky. Quindi c’erano diversi programmi che li trasmettevano, nelle loro varie discipline. I primi giorni facevo uno “zapping” continuo tra i vari programmi. Mi ero però accorto che, in quel modo, non vedevo nulla. A quel punto, per i giorni successivi, ho deciso di scegliere di vedere qualcosa soltanto, guardando prima il programma delle gare (anche questo è “programmare” e “pianificare”!) rinunciando al resto. Quindi, per poter vedere “davvero” quei Giochi Olimpici, ho dovuto “scegliere” cosa vedere, rinunciando al contempo a tutto quello che non sceglievo.
Posso citare l’esempio di un’amica, che non sapeva scegliere, comprendendo che quella scelta implicava rinunciare a quello che non si sceglieva.
Dovevamo andare da una nostra amica a La Spezia, pernottare da lei, e proseguire assieme, il giorno dopo, per l’Umbria. Partivo da Milano con, appunto, l’amica che “non sapeva scegliere”. Siamo partiti di pomeriggio, per varie “vicissitudini”, che non hanno reso possibile la partenza di mattina. La cosa “sensata” da fare sarebbe stato percorrere l’Autostrada A15 della Cisa, attraverso L’A1 (Autostrada del Sole), sino a Parma. Quello era il giro più rapido, che ci avrebbe consentito di giungere da Milano a La Spezia in poche ore.
Questa mia amica, invece, ha avuto un’idea davvero “strana”, della quale ho responsabilità anch’io, perché non mi ero opposto. La sua idea, già in partenza, era partire di mattina e fermarsi a Lavagna, per poi proseguire verso La Spezia attraverso la Riviera di Levante: quindi attraverso le autostrade A7 (Milano-Genova) e A12 (Genova-Livorno). Giro più lento, più lungo, ma carino.
La cosa sarebbe stata bella da fare partendo di mattina. Però siamo partiti, per vari motivi, come già dicevo, nel pomeriggio. A quel punto, La cosa sensata sarebbe stata capire che non c’era alcuna possibilità di seguire l’itinerario che lei aveva messo in programma di seguire, e andare diretti, invece, a La Spezia, via Parma e l’A15. La mia amica, però, aveva voluto comunque andare a Lavagna, e lì cenare. Ovviamente, siamo arrivati a La Spezia a tarda sera, tra le ire della comune amica.
Questo è un esempio di incapacità di rinunciare: in determinate circostanze occorre saperlo fare. Ed la mia amica aveva dimostrato di volere fare tutto: bagno e cena a Lavagna, arrivo a La Spezia. Dove siamo arrivati… a tarda sera… con un’amica che voleva lasciarci fuori!
Comunque, era abbastanza una sua abitudine, quella di volere fare tutto. E, di conseguenza, vivere in un eterno “zapping”, senza di fatto fare nulla.
Cambiamento… e rinuncia:
Cambiare significa rinunciare al passato…
e questo può spaventare
Proprio questa idea della “rinuncia” spaventa nel cambiamento: come dicevo, la “via vecchia” si conosce, quella nuova no. Di conseguenza, con la coscienza che, se si cambia, quello che si faceva prima svanirà, si ha titubanza.
In alcuni casi, qualcuno potrebbe pensare di trasferirsi sufficientemente vicino, anche se in una realtà diversa, per continuare a seguire anche le attività di prima, almeno alcune. Ad esempio, se una persona di Milano si trasferisse a Mendrisio o a Lugano, sarebbe comunque in una realtà diversa, come è quella Elvetica, e, forse, nello stesso tempo, potrebbe continuare a seguire almeno alcune attività a Milano.
Tuttavia, questo discorso è, ancora una volta, di chi non vuole “davvero” cambiare, non vuole “davvero” scegliere. Chi lo vuole fare, sa che il cambiamento dovrebbe implicare lasciare quello che si faceva prima, proprio in virtù del fatto che, se si cambia, si faranno cose migliori, e più gratificanti (almeno “sulla carta” e “nelle previsioni”).
Il cambiamento di quel tipo, comunque, come già dicevo, può disorientare. Tuttavia, occorre cambiare, se si decide di farlo. Come dicevo prima, una decisione “taglia fuori” quello che non si sceglie di fare, e deve essere piuttosto “categorica”.
Magari in un primo tempo può esser lecito tenere delle “porte aperte” verso il Mondo che si sta lasciando: tuttavia, in breve tempo, occorre la decisione “definitiva”, almeno con buona approssimazione: la Realtà di prima deve svanire. Altrimenti non è “vero” cambiamento.
Naturalmente, se esistono delle attività del luogo che abbiamo lasciato che si possono seguire agevolmente, ad esempio attività online, si potranno tenere attive. Tuttavia, occorre un “impazzire” per tenere aperte delle cose che, cambiando, dobbiamo necessariamente chiudere. Come dicevo, “scewgliere”, anche di cambiare luogo, significa “rinunciare”: anche, quindi, alla vita di prima.
Se non lo facciamo, se teniamo troppe “porte aperte” col passato, non potremo “davvero” cominciare la nostra nuova vita.
Abbiamo così terminato la parte relativa ai cambiamenti, in qualche modo, “voluti”.
Nella prossima e ultima parte ci occuperemo invece di quei cambiamenti in cui manca l’elemento del “voglio”, qui considerato come fondamentale. Vale a dire, di quei cambiamenti che, in qualche modo, “arrivano”, e che dobbiamo compiere anche contro la nostra volontà. Mostrando che questo fa parte del flusso dell’esistenza, e come tale va considerato.
Restate in contatto, per una conclusione sicuramente “diversa”, almeno in parte, dalle tematiche affrontate sinora, ma comunque, auspico, interessante e avvincente.

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