Dolore e Sofferenza: sono “casuali” o hanno uno scopo? Risposte (in particolare) della Filosofia Buddhista

Dolore e Sofferenza: sono “casuali” o hanno uno scopo? Risposte (in particolare) della Filosofia Buddhista

Di Sergio Ragaini

Il dolore e la sofferenza: due elementi che, purtroppo, ci capita di trovare davanti nelle nostre vite. Benché, infatti, si cerchi di tenerli lontani, questi, in determinati momenti, giungono nelle nostre vite, adombrando il nostro sole interiore.

Su questo tema sono, sicuramente, state spese molte parole, e si è cercato, in vari modi, di comprendere se la sofferenza abbia, in qualche modo, un “messaggio” da portarci.

In questo lavoro vi propongo un affronto del tema in modo un po’ diverso. 

In questa prima parte presento come appare la sofferenza in particolare nella Filosofia Buddhista, dove questa non ha una particolare connotazione, ma è solo un qualcosa che, semplicemente “accade”, e può essere superata.

Tutto questo sarà di “preludio” alla Seconda Parte del mio lavoro, dove prenderò in esame, in particolare, i simboli “Cristiani” legati alla sofferenza, e la ricerca, quasi spasmodica, che qui appare, della sofferenza come mezzo ipotetico di “espiazione”.

“Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua resurrezione. Salvaci o salvatore del Mondo”.

Questo si sente, spesso, pronunciare durante le Messe Cattoliche, quando, dopo la Consacrazione (detta anche “Elevazione”), il Sacerdote pronuncia le parole “Mistero della Fede”.

Sicuramente, da un punto di vista emozionale, queste parole sono molto belle da sentire risuonare nell’aria, e anche dentro di sé.  Così come, sempre a livello emozionale, può essere bellissimo pensare a qualcuno che è “morto per noi”.

Tuttavia, siamo ricercatori spirituali, e come tali, il nostro compito è, appunto, “ricercare”, vale a dire provare a capire.

In diversi miei articoli del recente passato avevo detto che viaggiare per altre Tradizioni Spirituali fa ritrovare un Cristianesimo senza misteri. Insomma: il velo del mistero cade, e si ritrovano diverse cose che, altrimenti, verrebbero collocate nell’Inspiegabile. Si possono leggere, ad esempio, il mio articolo “Elogio dell’Eresia” e quello sui Miracoli.

Tutto questo non impedisce di vivere bellissime esperienze con il Mondo Cristiano, ovviamente. Nel mio caso, posso citarne almeno due. La prima il bellissimo Pellegrinaggio a Medjugorje, effettuato grazie all’organizzazione di un amico di Bergamo, dal 22 al 27 aprile, e l’altra la frequentazione di un Gruppo, che si chiama “Alpha”, di origine anglicana (ma diffuso in tutto il Mondo e le Confessioni Cristiane), che si ritrova attualmente presso la Chiesa di S. Eustorgio a Milano. I Gruppi sono tenuti da membri delle “Cellule di Evangelizzazione” create, ancora diversi anni fa, dal Sacerdote, sicuramente compianto, Don Pigi Perini. È bello, finalmente, ritrovare nel Mondo Cattolico ambienti di apertura, dove vi è spazio anche per idee diverse da quelle del Magistero Cattolico, comprese le persone che, come me, non lo riconoscono autorevole, in quanto, come da me scritto in diversi articoli, non rappresenta la Chiesa di Cristo ma quella dell’Imperatore Costantino, ed è stato istaurato semplicemente con scopi politici.

In fondo, come diceva anche lo studioso Igor Sibaldi, una Spiritualità la si comprende davvero solo inserendola all’interno di altre. Quindi, e sono d’accordo, l’unico modo per capire il Cristianesimo è quello di vederlo alla luce di altre Spiritualità: altrimenti rischia di rimanere una serie di enunciazioni dogmatiche, dove, al di là dello slancio emozionale, rimane poi poco di effettivo, o almeno rischia di rimanere poco: ovviamente, questa è un’opinione personale! Non me ne vogliano i “Cattolici Ferventi”, animati da genuino entusiasmo e voglia di testimoniare quello che sentono. Spesso, dalle loro azioni, sono anche derivate cose bellissime.

Indagine e ricerca

Il mio spirito, però, è più di indagine e di ricerca. E quindi, anche in questo caso, proverò ad applicarlo.

E, stavolta, lo voglio proprio applicare al tema della Croce, del Sacrificio e, in generale, del dolore e della sofferenza. Per capire qualcosa di più, o almeno provare a farlo, su un tema sicuramente molto  sentito, dall’Uomo di ogni tempo.

In questa parte del mio studio cercherò di capire più da vicino cos’è la sofferenza, e perché questa accade. In tal senso, mi aiuterà molto la Filosofia Buddhista, con la sua grande capacità di analizzare in maniera non dogmatica e imparziale la realtà per quella che è.

Nel prossimo articolo, invece, proporrò un excursus, che spero troverete interessante, sul tema del dolore nel Cristianesimo, in rapporto anche ad altre Tradizioni Spirituali, per  cercare di comprendere come un’errata interpretazione del tema del dolore possa causare problemi, oltre ad una quasi “spasmodica” ricerca della sofferenza e del sacrificio a tutti i costi.

Innanzitutto voglio cominciare chiarendo un tema importante: le cose derivano tutte da cause e condizioni. Nel senso che, ad ogni causa, corrisponde un effetto, e ogni effetto è causa per un altro effetto, così come ogni causa è effetto di un’altra causa. Nulla quindi è senza cause, anche se queste possono non apparire direttamente, o perdersi in un passato anche molto remoto. Tuttavia ci sono.

Questo per dire subito che posizioni come “Le cose le manda Dio” sono da me escluse in maniera piuttosto categorica: Dio non “manda” le cose, perché vorrebbe dire agire fuori dalle Leggi Fisiche, che, almeno per chi riconosce un’entità chiamata “Dio”, sono state create da Dio stesso.

I miracoli

Nel mio articolo sul tema dei miracoli ho, spero, chiarito tutto questo: non può esistere una divinità “discriminante”, che fa miracoli a qualcuno e non a qualcun altro, che “manda” sciagure e disgrazie per mettere alla prova le persone e così via: sarebbe qui non solo una divinità discriminante, ma addirittura una divinità sadica: e questo, ovviamente, non lo posso accettare.

L’idea che un Dio “mandi” le cose per metterci alla prova piace molto a qualcuno: tuttavia, non ha secondo me alcun senso. Ogni cosa ha cause, effetti e condizioni. Le catastrofi ambientali non avvengono perché “Le manda Dio”, le malattie non avvengono perché “Le manda Dio”: alla base ci sono cause e condizioni. Considerare un intervento divino in queste significa togliersi delle responsabilità che ci sono proprie e che, se comprese, ci permetteranno di ovviare alla situazione o, dove questa appare irreparabile, di evitare che si ripeta altre volte.

Queste cause, come dicevo, possono essere ignote, o nascoste: tuttavia, sono sempre cause e condizioni, e non situazioni fatalistiche, come molti credono.

Ricordo che qualcuno mi diceva che ci si può chiedere perché Dio manda disgrazie e tragedie, affermando che “Sono i Misteri”. Personalmente, lascio a chi vuole credere questo il continuare a farlo: se questo lo fa stare bene, se pensare che ci sia un Dio che manda sciagure e disgrazie per motivi misteriosi, a noi incomprensibili, genera in lui benessere e serenità, perché non lasciare che continui a credere a ciò?

Tuttavia, come ricercatore spirituale, non posso ovviamente accettare una posizione di questo tipo, che “chiude” ogni possibilità di ricerca, affidando il tutto all’imperscrutabile. Quindi, credo sia meglio provare a capire più in profondità.

Le cause e le condizioni della sofferenza

Continuando nel nostro percorso di comprensione, il discorso appena fatto ci permette di dire che la sofferenza ha cause e condizioni che permettono a questa di manifestarsi.

E qui, come capita spesso, ci viene in aiuto la Filosofia Buddhista. Secondo questa, e il Maestro Zen Thich Nhat Hanh l’ha sottolineato diverse volte, le cose non sono creazioni, ma manifestazioni. Nel senso che la sofferenza si manifesta, non si crea in quel momento.

Nel suo bellissimo libro “Spegni il fuoco della Rabbia”, il primo libro dell’autore da me letto, ancora all’inizio del 2004, acquistato alla libreria “Demetra” di Lecco, quando vivevo da quelle parti, il Maestro Zen Vietnamita afferma che, quando una persona si arrabbia, la rabbia c’era già: semplicemente, in quel momento si manifesta.

La nostra stessa vita è una manifestazione, che inizia e finisce, ma non si estingue. Non a caso, Thich Nhat Hanh affermava che noi “non siamo mai nati e non siamo mai morti”.

Anche la sofferenza, quindi, si manifesta in un determinato momento. Si manifesta per delle cause, e non perché “mandata” da qualcuno per “mettere alla prova”, ad esempio, la nostra fede. Si manifesta e basta. Per delle cause, e per delle condizioni che fanno sì che quelle cause “prendano forma” in un determinato momento.

Di fatto, quindi, quella sofferenza esisteva di già, almeno in embrione: solo, in quel momento ha preso forma.

Nel Buddhismo, di tutte le Tradizioni, vi sono infatti quattro pilastri fondamentali, detti “Quattro Nobili Verità”, che chiariscono perfettamente, almeno spero, il tema della sofferenza:

1 – Esiste la Sofferenza.

2 – La sofferenza ha delle radici

3 – Esiste un sentiero che porta fuori dalla Sofferenza

4 – Esiste la cessazione della sofferenza.

Come si può vedere, qui non c’è alcuna sofferenza “provocata” da qualcuno: solo, vi sono della cause e delle condizioni. La sofferenza, insomma, ha necessariamente delle radici.

Il fatto che abbia delle radici, ci dice anche che non nasce dal nulla. Le cause possono essere molteplici, ma ci sono.

Esiste però anche un modo per eliminare la sofferenza, per uscirne. Nel Mondo Buddhista si chiama “Nobile Ottuplice Sentiero”. Il termine “ottuplice” significa che è composto da otto passaggi.

Seguendo questo sentiero, la sofferenza ha termine.

Quindi, come possiamo vedere, nulla è “mandato” da qualcuno: non credo, personalmente, che esistano “prove” che un’ipotetica divinità manda ad una persona. Forse siamo “noi stessi” che ci mandiamo quelle prove, magari per capire determinate cose.

Inoltre, nel Mondo Buddhista si trovano quelli che si definiscono i “Tre Sigilli del Dharma”. Il Dharma è l’insieme degli insegnamento di un Maestro. Questi sono, in sequenza:

1 – Impermanenza.

2 – Non sé

3 – Nirvana

L’Impermanenza significa semplicemente che … nulla è per sempre, che tutto è un flusso.

Ne parlavo anche in un mio articolo di circa due anni fa: la vita è un fattore dinamico. Vale a dire che, se ci troviamo oggi in una situazione che ci appare “terribile”, tra un po’ forse non la ricorderemo nemmeno più. Per me, lo ammetto, era stato un “colpo”, circa sei anni fa, non trovare più le chiavi del mio box. Poi ho cambiato la serratura, e ora, a  sei anni di distanza (nei quali, nel frattempo, quel box è stato venduto), quell’episodio è solo un vago ricordo. Questo per tutti gli eventi della vita, soprattutto quando questi non lasciano strascichi successivi.

Le mutazioni

La vita stessa cambia, e ci presenta situazioni che mutano.

Anche la sofferenza, quindi, è impermanente. Se noi ci troviamo in una situazione sgradevole, fastidiosa, o addirittura molto dolorosa, noi, in quel momento, la pensiamo come eterna, immutabile.

Invece, questa situazione sarà destinata a passare.

Quando, nel luglio 2015, c’era stata una forte ondata di caldo, tutti si chiedevano quando sarebbe terminata. I meteorologi giocavano quasi a “indovinare”: sappiamo bene, infatti, che, dopo 3-4 giorni, le previsioni del tempo rientrano nella casualità. Quando qualcuno si poneva il problema di quanto sarebbe durata quella situazione, io avevo dato due risposte: la prima è che era impermanente, quindi non poteva durare più di un certo tempo. La seconda, è che sarebbe durata “un giorno meno di ieri”, e questo poteva far stare tranquilli.

Questa mia risposta potrebbe aiutare molti, in situazioni dolorose: queste situazioni dureranno , sempre e comunque, “un giorno meno di ieri”, proprio perché non sono permanenti, ma transitorie.

Proprio per questo, quando una persona vive una situazione che sembra non terminare mai, potrebbe considerare, invece che il tempo da cui dura, il fatto che durerà ancora un determinato tempo meno il tempo da cui dura. Ad esempio, invece che dire: “Questa situazione dura già da due mesi”, dire “Questa situazione durerà due mesi di meno rispetto a quando è iniziata, e ogni giorno che passa durerà un giorno di meno”. Quest’ottica, credo, è la più adatta nel considerare la sofferenza.

La vacuità

Detto questo, anche la “vacuità” può aiutarci a comprendere meglio questa situazione del dolore.

Vacuità, nel Mondo Buddhista, vuol dire “assenza di un sé separato”. Thich Nhat Hanh faceva notare che, se noi consideriamo un oggetto qualsiasi, è pieno di elementi non di quell’oggetto.

Thich Nhat Hanh fa l’esempio di una rosa: questa contiene il vento, il giardiniere che l’ha coltivata, il sole, la pioggia e così via. Sono tutti elementi che fanno parte della rosa. “Rosa”, quindi, è solo un nome che diamo ad un insieme di parti, assemblate in modo da diventare quella che chiamiamo “rosa”.

La stessa cosa vale anche per la sofferenza: è vuota di un sé separato, nel senso che contiene elementi di “non sofferenza”. E questi elementi, spesso, sono proprio le sue cause e condizioni. Che di per sé definiscono quella che chiamiamo “sofferenza”.

La sofferenza, comunque, secondo le Tradizioni Buddhiste, è qualcosa da non desiderare: lo scopo è cercare la felicità e il benessere.

Non a caso, nella Tradizione Tibetana, in quelle che si chiamano le “Quattro Meditazioni Incommensurabili” (dette anche “I Quattro Incommensurabili”), le prime due recitano:

“Possano tutti gli essere senzienti avere la felicità e la sua causa”.

“Possano tutti gli Esseri Senzienti essere liberi dalla sofferenza e dalla sua causa”.

Qui si afferma, oltre al desiderio di tenere lontana la sofferenza (per sé e per gli altri), che questa ha comunque delle cause. Così come le ha la felicità.

Capire la funzione del dolore e della sofferenza

Dopo avere effettuato questa “digressione” nel Mondo Buddhista, che, proprio per la sua assenza di dogmatismo, permette sempre una grande comprensione, vediamo più da vicino il dolore e la sofferenza, cercando di capirne la funzione.

Supponiamo di essere dal medico, perché abbiamo un problema di salute. Il medico comincerà a tastare la zona interessata dal problema, e ci chiederà dove sentiamo dolore. Grazie a questo, il medico potrà farsi un’idea più precisa di quello che abbiamo.

Se non sentissimo dolore, il medico non potrebbe farsi alcuna idea del nostro problema.

Un altro esempio: supponiamo di prendere in mano un oggetto bollente: sentiremo un grande dolore che ci costringerà a lasciarlo andare. Se una persona, ad esempio, è affetta da sclerosi multipla, non sentirà dolore: come conseguenza, si brucerà la mano.

Il dolore, quindi, ha una funzione di “campanello d’allarme”: un campanello d’allarme che ci segnala che qualcosa non va, che occorre apportare delle modifiche, dentro e/o fuori di noi. Finché non le avremo apportate, il dolore continuerà a ricordarci che dobbiamo cambiare qualcosa, che qualcosa non funziona come dovrebbe.

Il Dalai Lama affermava che la sofferenza non deriva dal cambiamento, ma dalla resistenza al cambiamento. Credo che abbia ragione: nella nostra vita, determinate situazioni ci costringono ad operare dei cambiamenti. E magari sono lì proprio per quello. Dal momento in cui noi non li operiamo, la sofferenza proseguirà.

Posso fare un esempio relativo alla mia vita: quando, nell’agosto 2019, era venuto a mancare mio padre, ho visto di colpo la mia vita crollare. Quando, alla fine del 2001, era mancata mia madre, era stato si uno shock molto forte, perché era morta di fatto improvvisamente, anche se il suo stile di vita, soprattutto relativo all’enorme numero di sigarette che fumava, nonostante respirasse male, lasciava presagire che qualcosa sarebbe accaduto. Tuttavia, il tutto è avvenuto in maniera improvvisa, tra l’altro la sera di Natale del 2001.

In quel momento, però, vi era sempre la presenza di mio padre, che, in quel periodo, ha dato a me tutto l’affetto che dava prima a mia madre, facendo sentire molto la sua vicinanza (mio fratello era già sposato con due figli, e quindi aveva la sua vita coniugale). Inoltre, io, di fatto, aveva continuato a fare quello che facevo prima: tornavo a Milano nella stressa casa, frequentavo le stesse situazioni, gli stessi luoghi e così via.

Quando, invece, era morto mio padre, di fatto la cosa era molto più “annunciata”, visto che stava molto male da tempo e, per lui, la morte era stata quasi una liberazione.

Tuttavia, in quel caso, la mia vita di prima era andata “dissolta”: la casa dove anch’io vivevo è stata venduta, e di fatto mi sono trovato solo.

In quel caso, finché ho mantenuto un forte attaccamento alla vita di prima, vedendo ogni giorno la casa di Milano essere “smontata” pezzo per pezzo, la sofferenza era notevole.

Quando, il 18 dicembre 2019, avevo definitivamente lasciato la casa di Milano, la sofferenza era magicamente svanita. Nulla era cambiato:  avevo soltanto operato il “distacco” dall’esistenza di prima.

In quel momento avevo “accettato” il cambiamento. La sofferenza era passata.

La sofferenza come strumento di comprensione e accettazione

La sofferenza, quindi, è lì per farci operare un cambiamento, per segnalarci un problema, o la necessità, come nel caso di un lutto, di operare un drastico cambiamento nella propria esistenza: un cambiamento che, nel caso di un lutto, deve per forza avvenire. Quando questo cambiamento è stato operato, vedremo la sofferenza, quasi per incanto, svanire. Io l’ho sperimentato su di me, e posso dire che è così. Il dolore, fisico, mentale, esistenziale, è sempre lì per dirci qualcosa: se non cambiamo nulla, questo sarà sempre lì, magari ancora più forte, per indicarci la necessità di un cambiamento: un cambiamento che può essere una cura, un cambio di vita o altro ancora. Il dolore, comunque è lì per dirci che dobbiamo cambiare qualcosa. Ed è, come visto, un sintomo spesso salvifico: se non lo avvertissimo, come mostrato poco fa, giungerebbero danni peggiori, come in effetti giungeranno se non ascolteremo il suo “messaggio”, o addirittura lo “copriremo”, facendo finta che non esista, che non ci sia. Ricordiamoci che, in quel caso, potrà solitamente solo aumentare.

Ascoltare i messaggi della sofferenza è l’unico modo per capire che qualcosa non funziona. E, magari, quella sofferenza è lì apposta per indicarci una via di cambiamento, e, forse, addirittura la sua necessità. Se “ascoltiamo” i messaggi che la sofferenza ci invia, sicuramente potremo operare i giusti cambiamenti nelle nostre vite, e andare con gioia verso un futuro migliore.

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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici e non ha mai ricevuto finanziamenti privati fino al Marzo del 2023.

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