Itinerari del vino: i vignaioli di Grottaferrata e Castel De Paolis

Itinerari del vino: i vignaioli di Grottaferrata e Castel De Paolis

Di Susanna Schivardi e Massimo Casali – Foto di Massimo Casali

Arrivare a Castel De Paolis significa immergersi in una fetta di storia che parte dall’antica Roma e arriva fino ai giorni d’oggi, da quello che sembra essere stata una grande cisterna romana dove oggi riposano le botti per l’invecchiamento, passando attraverso il medioevo quando il luogo rappresentava una posizione strategica di controllo in un crocevia di antichi lastricati ancora usati fino al secolo scorso. Quella che nel medioevo era una fortezza e poi trasformata in villa, nel seicento viene abbellita con statue, giardini e fontane e una terrazza da cui ancora oggi ammirare la bellissima vallata e dove vengono organizzati eventi dai proprietari.

La famiglia Santarelli è la mente di quella che poi diventa azienda principe a Grottaferrata, rientrando nella Doc Frascati con la produzione di bottiglie di alto livello riconosciuto anche e soprattutto in Cina. Nel 1985 il dott. Giulio Santarelli allora sottosegretario al Ministero dell’Agricoltura e Foreste matura lentamente l’idea e il figlio, Fabrizio Santarelli oggi proprietario, cura tutta la produzione ed è lui ad accoglierci in questa avventura che si intreccia anche con un’altra bella iniziativa, nata proprio dalla chiusura per il Covid. Il dott. Santarelli, prima di illustrarci i vini, tiene a precisare che “il virus e la chiusura hanno spinto i produttori e i ristoratori a creare quella che si può definire un’alleanza territoriale per rilanciare il territorio e promuovere la zona di Grottaferrata, così ricca di tradizione e novità eppure a volte ancora poco conosciuta.

Castel De Paolis, istituzione vera e propria nel territorio, è affiliata a questa iniziativa, “si sono messi insieme vignaioli e ristoratori – ci racconta il Santarelli – un accordo sancito in luglio dove è stata creata una carta dei vini a parte dedicata alle etichette di Grottaferrata, un esperimento che ha fatto già parlare parecchio, e che ha visto nell’evento, Vigne e Cucine Aperte, un grande successo. All’interno delle cantine, infatti – continua il Santarelli – sono venuti a cucinare i ristoratori. Abbiamo fatto tre ristoranti per ogni cantina, con 55 persone al pranzo e 100 la domenica, quindi quasi 200 persone a degustare i vini laziali, un esempio virtuoso di promozione territoriale”. C’è del rammarico che nel Lazio i prodotti autoctoni non vengano ancora valorizzati nella giusta misura, un caso che vede nei ristoranti romani carte dei vini prive di etichette laziali. “Nel resto di Italia non succede – commenta il dott. Santarelli –  ma i nostri vini sono molto buoni, chiunque li assaggi ne apprezza il valore, purtroppo manca la comunicazione, ma per fortuna questa tendenza sta cambiando in meglio con l’entrata dei giovani che studiano come sommelier e si specializzano e sono più curiosi, ma il ristoratore di settant’ anni fa gelare il sangue perché non si è adattato alle novità”.

La storia di Castel De Paolis parte da lontano, dai nonni che ancora vendevano l’uva alle cantine sociali, perché, come ha poi scoperto Santarelli, allora si possedeva a mala pena un ettaro di terra a vitigno, e questo non bastava a produrre vino in autonomia. Poi “negli anni ’80 Giulio Santarelli incontra il prof.  Attilio Scienza che all’epoca dirigeva l’istituto agrario San Michele all’Adige, uno dei più rinomati d’Italia, agronomo di grande fama, che vede il terreno – precisa Fabrizio – vulcanico, vicino al mare e di media collina e si chiede perché ancora non si produca vino in una terra così fortunata”. Quindi nel 1985 solo su una piccola fetta, nella parte alta, dei 15 ettari esistenti, si estirpano le piante, piantando 25 uve sperimentali di tutti i generi. Tre anni dopo, nel 1988 si fanno praticamente 25 micro vinificazioni, quindi si definiscono i vitigni: per il Frascati la strada è tracciata dalla Doc, poi per i vini internazionali il viognier, il semillon e il sauvignon, per i rossi shiraz, petit verdot, cabernet, merlot e moscato rosa, quest’ultimo tipico dell’Alto Adige ma qui autorizzato da san Michele all’Adige che ci ha permesso di impiantarlo e da cui oggi si produce il Rosathea, vino rosso dolce di ottima qualità”. Una gamma molto composita, che poi è stata impiantata su tutto il territorio tra l’89 e il ’93, “quindi alla prima vendemmia era già stato tutto verificato, non abbiamo preso alcun rischio”.

Il professor Scienza consiglia anche di “intensificare la densità, quindi produrre poco per pianta, con 6000 piante per ettaro contro la misura solita dei castelli che conta 2200 piante per ettaro. In questo modo si costringe la pianta a mandare le radici in profondità e a pescare più acqua e sali minerali”. L’azienda puntando prima sulla collaborazione dell’enologo Lorenzo Peira, poi con Fabrizio Bono – sulle orme dei maestri Franco Bernabei, Carlo Corino e Roberto Cipresso – utilizza le massime tecnologie e soluzioni innovative, tra cui, almeno da dieci anni, l’abitudine di mettere ghiaccio secco sui grappoli appena raccolti per mantenere l’uva fresca e fragrante ed evitare la fermentazione anticipata, contribuendo a preservare eleganza e longevità all’uva. Nella visita alla cantina, si passa per la sala dei vini bianchi, dove sono i serbatoi refrigerati in acciaio dotati di pompe per effettuare i rimontaggi. In cantina ci vengono offerti in degustazione i prodotti più noti.

Partiamo da I Quattro Mori, un nome che ricorda sia le quattro uve con cui è prodotto, shiraz, merlot , cabernet sauvignon, petit verdot, affinati per due anni in barrique di allier e un anno almeno di bottiglia, ma il nome, come ci racconta Santarelli, deriva anche da un motivo storico “tutti conoscono la canzone delle fontane a Marino, che danno vino, cioè la sagra dell’uva istituita da Leone Ciprelli, per festeggiare la viticultura, fontane che danno vino, in che senso?

Nella fontana ci sono i quattro mori in catene, perché al tempo Marco Antonio Colonna, famiglia importante a Marino, nel 1571 guidò i cristiani contro i mori a Lepanto, per dimostrare la sua vittoria, e tornando dalla battaglia, portò i mori in catene e questa fontana ricorda l’evento di gloria legato a Marino”. Anche l’etichetta di questo vino ha una sua storia, a disegnarla fu Umberto Mastroianni, zio del Marcello attore. All’inizio l’artista non voleva, poi sentendo che anche altri pittori avevano disegnato etichette, come Picasso, Dalì, Mirò, Kandinskij, allora accettò e da lì il suo disegno è usato anche stilizzato per le altre etichette. Il rosso in questione è di particolare intensità, con profumi di frutta di bosco, spezie, cuoio e tabacco. In bocca è corposo, quasi masticabile, con tannicità raffinata e allo stesso tempo sapido e minerale. “Al contempo – conclude Santarelli – è morbido e con un’acidità che completa, molto persistente quindi può accompagnare grandi arrosti, brasati, formaggi stagionati.

Ripartendo dai bianchi assaggiamo il Campo Vecchio Doc Frascati. Un bel naso con frutta fresca a polpa bianca, in bocca rispecchia il naso perfettamente, ha una piacevole persistenza, data dalla fermentazione in acciaio. Il secondo vino è il Frascati Superiore Docg , che presenta una mineralità piacevole, con frutta a polpa bianca e sapidità, spalleggiato da una bella nota acida, in bocca è persistente al punto da poterlo abbinare ai piatti locali anche di carne. Arriviamo poi al Donna Adriana, con 80% viognier e 20& malvasia, e solo un 15% di viognier ha un primo passaggio in legno, quindi da struttura ma il sentore di legno rimane morbido. Presenta un bel giallo dorato, si presenta al naso molto intenso e minerale, arriva poi la frutta bianca matura. Al palato è sapido e molto persistente con sentori speziati.

Tra i rossi ci offrono il Campo Vecchio IGT Rosso Lazio, di cui il 50% shiraz affinato in barrique, cesanese al 30% e sangiovese al 20%, presenta alcolicità che non perviene al naso ed è molto amalgamata. Sentori di frutta rossa, cuoio, con accenno di vaniglia e prugna matura. Il tannino è piacevole di alta qualità, insieme alla percezione di spezie che accompagna per tutta la persistenza. Il gran finale è dedicato al Muffa Nobile, paragonato al celebre Chateau d’Yquem, uno dei migliori sautern al mondo, per uvaggio e lavorazione. Con questo prodotto abbiamo bisogno di una resa bassissima, 40ql/Ha, e fermentazione in barrique nuove, con successivo affinamento in barrique troncais e allier. Il suo colore è oro, al naso frutta matura e dolce, albicocca e frutta secca, miele, vaniglia con una punta di sapidità. La frutta inonda il palato, presentando anche una bella acidità, che evita a questo nettare di diventare stucchevole. L’abbinamento eccellente è con formaggi erborinati.

Visto il periodo storico, anche il cambiamento climatico sembra pesare sulla storia di una bottiglia. “Per il caldo, nel 2017, anno torrido, abbiamo anticipato la vendemmia l’8 agosto e abbiamo dovuto correre, in fretta e furia, non avevamo tanto tempo per pensare, un giorno in più e sarebbe cambiato tutto, del resto – tiene a precisare il Santarelli –  la raccolta dell’uva è fondamentale per operare il meno possibile in cantina”. Al termine della giornata Fabrizio Santarelli dedica un ulteriore accenno all’Associazione Vignaioli di Grottaferrata, di cui è presidente Tiziana Torelli, e come rappresentante dei ristoratori Massimo Pulicati, meglio conosciuto come l’oste de L’Oste de la Bon’Ora.

All’associazione hanno aderito: Cantine Emanuele Ranchella, Cooperativa Agricoltura Capodarco, Villa Cavalletti, la Torretta, Castel de Paolis e Cantine Gabriele Magno Mentre tra i ristoratori: Il Cavallino in villa, La Briciola di Adriana, La Casina del Buongusto, La Cavola d’Oro, L’Oste della Bon’Ora, Ristorante Mangiafoco, Taverna dello spuntino, Taverna Mari, Osteria del Fico Vecchio

Gli itinerari nel Lazio non terminano qui. Prossimo appuntamento con Cantine Imperatori.

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