Cronaca di una Urbex a Cagliari

Cronaca di una Urbex a Cagliari

Reportage a cura di Corrado Grandi – tutte le immagini sono state scattate dall’autore

Dopo due giorni lontani da casa, la nostra bassottina Maia era così contenta di rivederci che le è scappata la pipì sul tappeto. Ma forse è meglio che nel raccontare questa storia, io parta dall’inizio.

Mi chiamo Corrado, abito a Biella e mi piace dire che sono arrivato vivo all’età della pensione. E di questi tempi è già tanta roba. Matteo, mio figlio, tra gli altri interessi ha la passione per l’Urbex.

Urbex è la contrazione di due parole inglesi “Urban ed Exploration”. Si tratta di appassionati nell’esplorazione di edifici abbandonati di qualsiasi genere, fabbriche, miniere, case ed ospedali. Raccontano la storia di queste strutture facendo foto e video, mostrando in presa diretta quello che stanno vedendo e postando tutto in rete.

Tempo fa mi ha chiesto: vuoi venire con me a Cagliari a fare due giorni di ricerche?

Beh, i cantieri andranno avanti anche senza di me per quarantotto ore, perché no? Piccola premessa: Matteo è Pesci con ascendente T-Rex. Cioè ha le braccine corte e se può risparmiare un centesimo lo fa.

Partiamo in una fredda notte di inizio aprile dall’aeroporto Orio Al Serio di Bergamo, detto anche “Il Caravaggio”. perchè a Bergamo hanno ottime idee su come chiamare un aeroporto, non come a Milano…

Il volo procede bene, poco più di un’ora dopo atterriamo a Cagliari. Per spostarci, Matteo ha noleggiato una vettura, ma l’agenzia si trova a mezz’ora di strada perché costava meno. Ci incamminiamo in superstra seguendo le indicazioni del cellulare, tra le auto che sfrecciano, sotto il sole della Sardegna ed infrangendo una dozzina di regole del codice della strada.

Arrivati sudati fradici all’autonoleggio il titolare ci chiede perché non abbiamo preso la navetta. Ve l’ho specificato nella brochure che è disponibile. Matteo sembra cadere dalle nuvole: ah si? Non me ne sono accorto.

Guardo il titolare: lo strozzo?

Prima tappa, lo stadio Sant’Elia. Inaugurato nel 1970 dopo lo storico scudetto della squadra cittadina, ristrutturato per ospitare alcuni incontri di Italia 90, è stato definitivamente chiuso nel 2017.

Abbiamo fatto due giri intorno alla struttura per cercare un modo di entrare. Catene, reti, porte saldate, lucchetti. Niente, sembra non esserci via d’accesso. Stavamo per rinunciare quando ci siamo appoggiati per caso ad un portone per riposarci e siamo letteralmente caduti dentro.

Una strana sensazione di disagio ha iniziato a impossessarsi di me. Eravamo solo noi due, ma non potevo non sentire la presenza dei giocatori, del pubblico, i giornalisti in tribuna ed i venditori di bibite e panini. Matteo mi conferma che è una percezione piuttosto comune, le prime volte che si affrontano queste avventure. Che tristezza vedere quel glorioso monumento al calcio ridotto in quel modo.

Calcinacci ovunque, gradinate parzialmente demolite ed il campo di gioco pieno di cespugli, erbacce e in alcuni punti persino delle palme.

Raggiungiamo la nostra camera per la notte, Matteo ha scelto un affittacamere in centro, il motivo è sempre lo stesso…Lasciamo i bagagli, un veloce rinfresco  e ripartiamo.

Prima sosta, siamo in Sardegna, non lo andiamo a vedere un Nuraghe? Guardiamo sul nostro immancabile cellulare, lungo la strada della prossima visita c’è il nuraghe di Samatzai:  è un complesso che si trova nel territorio di Samatzai nella regione storica  della Trexenta. 

Se non ho capito male, quel simbolo attaccato alle pietre serve per monitorare con un laser la stabilità della costruzione. Lungo la strada, enormi fichi d’india e immensi campi di carciofi. E pale eoliche.

Si riparte, adesso il programma prevede una visita ad una fabbrica dove riparavano vagoni e motrici ferroviari, nella zona di Villacidro. Questa volta entrare è stato più semplice, la rete ha uno squarcio enorme e ci passo comodamente anche io che… sono facile da vedere…

Ci sono una serie di capannoni, ognuno organizzato per offrire una lavorazione diversa. Tutto è fermo esattamente come è stato lasciato l’ultimo giorno di lavoro, più di dieci anni fa. Mi sono sentito di nuovo a disagio ad entrare in quei ricoveri dove il tempo sembra essersi congelato. Le postazioni di lavoro, i macchinari, i vagoni pronti per il rinnovo. Su un tavolo ci sono ancora i progetti appoggiati, pieni di polvere ma ancora chiari e leggibili. Su altri banconi, le bottigliette di acqua o bibite per dissetarsi, i caschi protettivi, i guanti.

Tutto fermo come in un fotogramma macabro e triste allo stesso tempo. Giravo nei capannoni e sembrava di sentire le voci degli operai, il rumore delle macchine, lo sferragliare dei carrelli sulle rotaie. Il vento ogni tanto faceva tremare le lamiere delle pareti, qualche colombo prendeva il volo. Mi ha colpito la totale mancanza di vandalismo. Niente vetri rotti, niente scritte con lo spray, niente buttato in aria solo per il gusto di spaccare qualcosa.

Il sole sta tramontando, abbiamo fatto un sacco di foto e video, sono 15 ore che siamo in giro, inizio a sentire la stanchezza. Ci fermiamo a mangiare qualcosa per strada.

Domani ci aspetta qualcosa di molto impegnativo ma ancora non lo sappiamo…

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1979, il DC9 della Volo Aero Trasporti Italiani 12 (BM-PT 012) partito da Alghero con destinazione Roma e che avrebbe dovuto fare scalo a Cagliari, si schiantò su un costone roccioso nei monti di Capoterra, nella zona di Conca d’Oru.

Non ci furono sopravvissuti.

La zona impervia, le difficoltà nel raggiungere il luogo del disastro e gli alti costi dell’operazione, fecero decidere alle autorità di non recuperare i rottami dell’aeromobile. Unico in Italia, quella zona di Capoterra è considerata un santuario a cielo aperto, dove chiunque, se lo desididera, può salire e dedicare un pensiero alle vittime del disastro.

Matteo ha in programma di salire in cima e fare un reportage di quello che ancora si trova sulle pendici della montagna. Arriviamo ad uno spiazzo dove è possibile parcheggiare l’auto, da lì partono quattro sentieri ma quello che interessa a noi non è indicato. Siamo soli in mezzo al niente e la situazione rischia di bloccarsi. Per fortuna arriva una gentile signora in mountain bike che ci indica la strada giusta e possiamo partire.

Il sentiero non è dei più facili, la vegetazione ha ripreso il suo posto. Sono solo due chilometri, ma piuttosto impegnativi. In alcuni tratti è necessario aggrapparsi alla vegetazione per continuare la salita. Per viaggiare leggeri non abbiamo portato attrezzature particolari, però jeans e scarpe da ginnastica non sono proprio indicate.

Arrivati in cima, un brivido indescrivibile lungo la schiena. Ci troviamo all’improvviso davanti ad un un pezzo di fusoliera.

Sono dovuto tornare indietro a prendere fiato.

Il sentiero continua, altri rottami e non puoi non pensare a quel momento, a ciò che quelle persone devono aver affrontato. Un silenzio irreale ci circonda, cerchiamo di capire. Alcuni pezzi si riconoscono, altri sono soltanto lamiere accartocciate.

Attaccati ai rami ci sono dei fiocchi colorati che stanno ad indicare che li vicino c’è un pezzo dell’aereo. E ce ne sono davvero tanti. All’improvviso, la coda dell’aeromobile. Il vento la faceva scricchiolare e mi è venuta la pelle d’oca.

Sotto l’ala posteriore, uno dei motori. Probabilmente il velivolo si è piegato su se stesso nell’impatto. Su un rottame Florys e Collu hanno inciso il loro nome e la data della visita. E, purtoppo, non sono i soli.  Altri hanno imbrattato le ali con bombolette spray.

Provo pena per loro, una totale mancanza di rispetto verso questa tragedia ed i suoi protagonisti. Spero abbiano avuto una dissenteria cronica.Il senso di disagio cresce, forse non sono adatto a questo genere di cose.

Mi commuovo quando Clara inizia a camminare, sostenuta da Heidi e Peter, figuriamoci in questa situazione.

Il tempo passa in fretta, abbiamo foto e video a sufficienza, è ora di scendere. È lì che ho preso la prima e più avanti la seconda storta che mi hanno massacrato la caviglia destra. Non ero attrezzato, Matteo parlava di un sentiero di montasgna. Si, ma tutti in salita!!! Sono comunque riuscito a scendere e tornare in città.

Prima di restituire l’auto a noleggio e tornare in aeroporto, questa volta con la navetta, ci siamo fermati a contemplare il bellissimo mare della Sardegna. Abbiamo anche fatto un giro in centro a Cagliari, alla ricerca di un paio di souvenir, qualche cartolina (sono quelle foto del luogo dove noi boomer attaccavamo un francobollo e mandavamo i saluti a parenti ed amici…)

Sono sudato marcio e senza la possibilità di fare una doccia. Per fortuna ho ancora un cambio, spero che la mia vicina di posto sull’aereo abbia un po’ di sinusite, mi sento molto in imbarazzo. Ringrazio l’inventore dei deodoranti spray.

Arriva il momento dell’imbarco, sono sfinito, due giorni così mi hanno disfatto. Talmente forti le emozioni che durante il volo non sono riuscito a dormire.

Atterrati a Bergamo avevamo ancora 90 minuti di autostrada, prima di rientrare a casa.

E potermi finalmente fare una doccia! Qui, dietro la porta di casa, c’era Maia che ci aspettava, felicissima di rivederci neanche fossimo stati via un mese!

***Per chi desidera seguire il canale YouTube di Matteo Grandi: https://www.youtube.com/@TeoUrbex/videos

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