Intervista a cura di Carlo Fariccotti
Con Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce (La nave di Teseo) Giuseppe Cesaro chiude la sua esperienza di autore “in chiaro”. Aveva promesso che questo sarebbe stato il suo ultimo libro firmato e intende mantenere la parola.

Non smetterà di scrivere — lo ha sempre fatto, anche prima di pubblicare — ma tornerà nell’ombra, a essere quel ghostwriter che negli ultimi vent’anni ha firmato decine di libri per altri, spesso con successo. Una scelta che nasce anche da una riflessione critica sul mondo editoriale di oggi.

L’abbiamo intervistato per capire cosa significhi davvero dire addio alla propria voce pubblica, cosa resta quando si smette di firmare e perché, in un’editoria che sforna migliaia di titoli l’anno, a volte la scrittura trovi più verità nel silenzio che nella visibilità.
Cosa l’ha spinta a prendere questa decisione così radicale?
«Scrivere – se è vero scrivere e non mero sdilinquimento narcisistico – è doloroso. Richiede lucidità, onestà intellettuale, rigore, cura, fatica, tempo. Ma, soprattutto, coraggio. È denudarsi e denudare. Se covi un testo per anni, ne impieghi uno o due a dargli forma e, poi, lo vedi abbandonato a sé stesso, in una palude di migliaia di titoli, condannato a una sorta di darwinismo editoriale nel quale sopravvivono solo i più “forti”, ti arrabbi. Ma non serve a niente. È come giocare a tennis contro un muro: la pallina torna sempre indietro. E tu non hai la minima possibilità di segnare nemmeno un punto. E, così, la rabbia diventa frustrazione. E, presto, la frustrazione, depressione. Dopo sedici anni di tentativi – racconti, graphic novel, romanzi – ho deciso che dovevo metterci una pietra sopra o quella pietra avrebbe finito con lo schiacciare me. Ma sapete qual è la cosa più dolorosa? Vedere che, quando qualche VIP firma le cose che scrivi, quei libri vendono migliaia – talvolta decine di migliaia! – di copie, mentre, quando firmi tu, non vai oltre le tre-quattrocento copie. Ora: dal momento che la penna è la stessa, è evidente che non è un problema di qualità della tua scrittura. Il problema, quindi, non sei tu: è il sistema-editoria. Anche se, per miracolo, uno scrivesse come Dostoevskij, Hemingway o Gadda, non cambierebbe niente lo stesso».
C’è stato un episodio specifico, la canonica goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«L’ultimo romanzo, “Fatico a ricordare il tuo nome. E, ancora di più, la tua voce”: il più doloroso di tutti. Rassegna stampa clamorosa, sia per quantità che per qualità delle recensioni (grazie al lavoro di un ufficio stampa ad hoc, coinvolto da me), nessuna promozione, nessuna presentazione (per quel poco cui servono). Risultato? 400 copie vendute, esattamente come i miei primi due romanzi: “Indifesa” (2018) e “31 Aprile, il male non muore mai” (2021). Tenete presente che, su una tiratura di 1.500 copie, 400 copie non sarebbero nemmeno un risultato del tutto disprezzabile. Parliamo, infatti, di circa il 27% del totale. Su altre tirature, probabilmente, si otterrebbero vendite decisamente più significative. È evidente, però, che 1.500 copie di tiratura significa: “Ci proviamo: se va, va, se non va, pazienza”. Se a tutto questo, poi, aggiungiamo la mancanza di promozione (quasi nessuno sa che il tuo libro è uscito) e una distribuzione inevitabilmente deficitaria (1.500 copie divise per i 4mila punti vendita di libri significa che, in media, il tuo libro si trova in una libreria su tre) è evidente che quel libro è destinato prima all’invisibilità e poi al macero. Prospettiva inaccettabile per chiunque – e non sono certo il solo – consideri la scrittura vita. È come giocare a una roulette che, invece dei soliti 37 o 38 numeri, ne ha 85mila! Le probabilità che la pallina si fermi proprio sul tuo, corrispondono allo 0,00118%. Il che equivale a dire nessuna. Chi punterebbe una cosa alla quale tiene, a un tavolo del genere? Io l’ho fatto. Per tre volte. E, per tre volte, ho perso tutto. Ora, ho detto basta. E credo che, per quanto dolorosa, sia la scelta giusta».
Da quando ha iniziato a scrivere, com’è cambiato il panorama editoriale italiano?
«Ho cominciato a scrivere a metà anni Ottanta. Se i dati che ho rintracciato sono corretti, si pubblicavano poco più di 20mila titoli. Nel ’90, i titoli erano quasi raddoppiati (poco meno di 38mila). Nel 2000, poi, si è superata quota 55mila, Nel 2010, si è andati oltre i 65mila e dal 2020 in poi si è volati oltre quota 80mila. Il panorama, dunque, è cambiato eccome, soprattutto perché, a questa crescita impazzita delle quantità, non è corrisposta alcuna crescita della qualità. Il contrario, anzi. Oggi, per pubblicare, basta avere un nome più o meno famoso e un piccolo/grande esercito di fan/follower. E così, ci troviamo circondati da un oceano di scrittori-non-scrittori – attori, cantanti, sportivi, personaggi del mondo dello spettacolo e della tv, chef, imprenditori, manager, uomini di successo e così via – che inondano le librerie con migliaia di titoli-spazzatura. Morale: scovare un libro “vero” di un autore “vero” è come sperare di incontrare la persona che ti cambierà la vita in una metropoli per visitare la quale hai a disposizione solo una manciata di minuti. Impossibile. Io credo che tutto questo non giovi né ai pochi lettori superstiti, né agli editori che vogliono mantenere alti significato e valore della loro antica e nobile professione e non rischiare di trasformarsi in tipografi del “portare soldi, vedere cammello”. Ma soprattutto, non giova affatto a narrativa e letteratura. Se, come temo, le cose continueranno così, narrativa e letteratura perderanno tutto il loro fascino e, con esso, la loro funzione estetica, etica, civile, catartica, empatica e, ovviamente, ludica. Una perdita immensa, i cui danni, in prospettiva, non siamo nemmeno in grado di immaginare».
Da tempo si parla di “decrescita felice”, “pubblicare meno per pubblicare meglio etc.”. Ma nulla pare cambiato. Cui prodest questa situazione?
«Sono uno scrittore. Non un imprenditore né un manager. Per rispondere, quindi, sono costretto ad affidarmi al buon vecchio “principio di non contraddizione”: dal momento che la situazione non cambia, evidentemente a qualcuno conviene. Se la mia lettura dei dati è corretta, negli ultimi dieci anni il mercato del libro in Italia ha vissuto una lenta crescita iniziale, seguita da un vero e proprio boom tra il 2020 e il 2021 (probabilmente, complice l’effetto pandemia che ha spinto molti lettori verso l’acquisto di libri, soprattutto online). I volumi di copie vendute sono passati da circa 101 milioni nel 2015 a un picco storico di 118 milioni nel 2021, per poi stabilizzarsi attorno ai 112 milioni nel 2023 e attestarsi intorno ai 110 milioni stimati per il 2024. Parallelamente, il valore complessivo delle vendite è salito da circa 1,2 miliardi di euro nel 2013 a quasi 1,7 miliardi nel 2023, registrando un incremento particolarmente marcato nel biennio post-Covid. Nel 2024 si osserva un leggero calo, con un valore previsto di circa 1,5 miliardi di euro, che segna una normalizzazione dopo anni di crescita eccezionale. Nonostante questa flessione, il mercato resta su livelli nettamente superiori rispetto al periodo pre-pandemico. Non si può dire, dunque, che – dal punto di vista dell’industria del libro – le cose vadano male. Come dicevo: a qualcuno conviene. Temo, però, che questa sconsiderata ipertrofia produttiva sia un serpente che si morde la coda, che finirà con il divorare sé stesso. Non sono così ingenuo da credere che l’editoria possa vivere solo di libri di qualità. Anche perché sono troppo pochi per sostenere il peso di un comparto così rilevante. E non pretendo, quindi, che si rinunci a quei titoli “di cassetta”, i cui preziosissimi proventi aiutano sia far quadrare i bilanci sia a reperire le risorse da investire su quegli autori – esordienti e no – che meritano di essere pubblicati. Dico, semplicemente, che bisognerebbe trovare il modo di riequilibrare i due piatti della bilancia, cercando, da un lato, di non inondare il mercato di un numero eccessivo di libri inutili e, dall’altro, di ritrovare senso e valore del ruolo dell’editore, scoprendo e promuovendo un numero maggiore di autori e libri di qualità, accompagnandoli con l’attenzione e la cura che meritano. Anche perché l’immagine di una editoria che – come Crono – prospera, sacrificando migliaia e migliaia di scrittori, la loro originalità, le loro creazioni, le loro ambizioni, i loro sogni, non mi sembra, francamente, una bella immagine».
Lei parla di una “quotidiana ecatombe” dove il 99% dei titoli viene abbandonato. Ha mai assistito a casi concreti di questa dinamica?
«Mille volte. La mia non è una battaglia personale. Non ho un ego così smisurato e di certo non mi ritengo la migliore penna in circolazione. Gli autori ostracizzati, marginalizzati e ridotti all’irrilevanza sono migliaia. E, tra questi, le penne di valore sono tantissime. Penne che meriterebbero di essere pubblicate e lette. Il mio grido di dolore – che si potrebbe riassumere nella formula: “salvate l’editoria, per salvare narrativa e letteratura” – riguarda tutti loro e, soprattutto, la loro, fondamentale, irrinunciabile, funzione: concorrere a formare coscienze, per favorire nascita e sviluppo di un pensiero critico. In Italia, quasi il 43% dei titoli, non supera nemmeno le 100 copie vendute, un altro 26% (percentuale nella quale rientrano i miei romanzi) si ferma tra 101 e 500 copie, il 14% riesce a malapena a raggiungere la soglia delle 1.000 copie, solo l’11% riesce a spingersi fino a 3.000 copie appena un risicato 6%, riesce a superare le 3.000 copie vendute: non sembrano cifre da ecatombe?».
Lei dice di aver pubblicato “decine di titoli” come ghost con i maggiori editori. Come si vive questa doppia identità letteraria? Non è frustrante vedere il proprio lavoro celebrato sotto altro nome? Il suo alter ego ghostwriter “andrà avanti”. Ha già nuovi progetti in cantiere?
«A oggi, i titoli sono una cinquantina. Ho iniziato come ghostwriter, all’inizio degli anni Duemila. L’ho fatto per due ragioni: la speranza di essere notato da editori importanti e di riuscire a pubblicare romanzi con il mio nome. Cose che, in effetti, sono accadute. (Confesso che ha avuto il suo miele il fatto di essere corteggiati da editori che non avevano nemmeno letto i manoscritti che avevo inviato loro). Fare il ghost, però, mi ha anche aiutato a migliorare, significativamente, la mia scrittura. Cinquanta titoli, infatti, significa cinquanta “voci”, cinquanta linguaggi, cinquanta storie, cinquanta registri espressivi diversi: una straordinaria palestra di scrittura. Frustrante? Certo che è frustrante. Sarebbe folle non ammetterlo. Ho detto spesso che ci vuole davvero una grande dose di umiltà per non gridare al mondo: “Quel libro l’ho scritto io!”, soprattutto quando ti accorgi che chi lo firma si pavoneggia con le tue piume o non si è nemmeno reso conto di quanto hai fatto per lui. (C’è anche chi, stizzito, cambia qualche parola qua e là – di solito, peggiorandola – come per il bisogno di poter dire a sé stesso: “Questo l’ho scritto io!”). Di solito, mi consolo pensando che certi libri sono un po’ come dei figli che dai in adozione a famiglie più facoltose. Lo fai, nella speranza che possano offrire loro più di quanto riusciresti a fare tu. Ogni volta, però, che ci salutiamo, li vedo entrare nella loro nuova casa, so che non li rivedrò più e che non potranno mai portare il mio cognome, una parte di me scompare insieme a loro. Una cosa tutt’altro che facile da accettare».
Lei prevede che tra 2-3 anni l’IA renderà ancora meno necessarie le “penne”. Come vede il futuro della professione dello scrittore?
«Dobbiamo distinguere. Se, con “scrittore”, intendiamo qualcuno che, per una propria “urgenza” interiore, non può fare a meno di scrivere, allora quel genere di scrittore non morirà mai. Il bisogno, catartico e salvifico, di raccontare storie è nato con l’uomo – molto prima che nascesse la scrittura vera a propria – e morirà con l’uomo. L’editoria è un fenomeno storicamente recente e, se non corre ai ripari, cercando di superare le attuali storture, temo che finirà con lo snaturarsi completamente, rischiando di perdersi in tempi, ahimè, più brevi di quanto immaginiamo. E lo dico con preoccupazione e tristezza. Non c’è assolutamente nulla da festeggiare in una prospettiva del genere. L’avvento dell’IA sta cambiando tutto. E non solo nell’editoria. Presto scompariranno i ghost e molti autori ricorreranno, più o meno truffaldinamente, ai servigi degli algoritmi dedicati alla scrittura. Un altro duro colpo sia al valore di narrativa e letteratura, sia all’industria del libro che, inizialmente, lucrerà sulla situazione ma, nel medio termine, rischierà di rimanerne travolta. Mi auguro di sbagliare, ma temo che il futuro che ci attende – non parlo solo dell’editoria – sarà tutt’altro che roseo. E i libri saranno l’ultimo dei nostri problemi».
Cosa direbbe oggi a un giovane scrittore che le chiedesse consigli per esordire?
«Innanzitutto, di distinguere tra tre verbi che non sono affatto sinonimi: scrivere, pubblicare, vendere. La prima cosa non implica, necessariamente, la seconda. (Se la nostra scrittura ha davvero senso e valore li manterrà anche se non verremo pubblicati). La seconda cosa non implica, necessariamente, la terza. Al di là della normale alea che riguarda qualunque opera dell’ingegno, perché un libro venda deve mettersi in moto una potente “macchina della propaganda”: marketing, pubblicità, pubbliche relazioni, contatti sociali e personali, anticipazioni, recensioni pilotate, buzz social, endorsement, festival, talk show, passaparola costruito, premi… Tutte cose che costano soldi, risorse umane e tempo. Un impegno che nessun editore è in grado di sostenere per grandi numeri di titoli. Ovvio, quindi, che ognuno scelga di puntare le proprie fiches su quella manciata di autori/titoli, che ritiene abbiano le maggiori possibilità di successo. Tutti gli altri restano, inevitabilmente, fuori dai giochi. Non dimentichiamolo. Bisogna, poi, tenere a mente un chiasmo fondamentale: se non ti pubblicano o non vendi, non significa, necessariamente, che scrivi male; se ti pubblicano e vendi, non significa, necessariamente, che scrivi bene. Nel primo caso, non bisogna deprimersi; nel secondo, non bisogna esaltarsi. Le variabili del mercato editoriale sono troppe per poter ridurre il tema a queste due, semplici, equazioni. Ma credo che la cosa più importante di tutte sia essere consapevoli del fatto che essere convinti di saper scrivere bene non significa affatto saper scrivere bene. Tra le nostre convinzioni e la realtà c’è un abisso. Un abisso che, troppo spesso, non vediamo o ci rifiutiamo di vedere. Io scrivo da cinquant’anni e, tra articoli e libri, pubblico da quasi quaranta e sto ancora imparando. Per chi vuole davvero imparare a scrivere, credo che le regole d’oro da seguire siano tre: leggere, leggere, leggere. I libri giusti, ovviamente. Il resto verrà da sé».
Lei cita “nepotismo, familismo, salotti esclusivi”. Ha mai avuto occasioni di entrare in questi circoli e ha scelto di non farlo?
«Entrare è difficile, ma non impossibile. A me i contatti con personalità della cultura, dell’arte, della musica, del cinema, dei media e persino della politica non sono mai mancati. Il punto è essere consapevoli di cosa significhi bussare a certe porte. E quale sia il prezzo da pagare, perché c’è sempre un prezzo da pagare. La domanda è: a cosa sono disposto a rinunciare per pubblicare? Ognuno risponda in base a ciò che la propria coscienza gli suggerisce. Si ricordi, però, che, una volta che le porte si aprono e si entra nel mondo del do-ut-des, certi no non si possono più dire. A meno, ovviamente, di non accettare il rischio di essere messi alla porta».
Come immagina il panorama letterario italiano tra dieci anni?
«Desolato e desolante. Se non si trova, presto (e temo non si troverà), un punto di equilibrio virtuoso tra lo strapotere delle logiche industrial-commerciali e l’irrilevanza alla quale è stata relegata la vera scrittura, la bolla è destinata a esplodere. E, come ho detto, sarebbe una notizia tragica, le cui conseguenze non siamo nemmeno in grado di immaginare».

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