Editoriale di Claudio Rao
Interpellato dall’articolo del collega di testata (Gli Scomunicati) Alessandro Bertirotti (Mi riferisco a questo editoriale pubblicato in prima pagina: «Istruire… certo, ma chi?»), sono andato a rileggermi il pezzo cui faceva riferimento, pubblicato da “Il Giornale”: «Il fallimento dell’istruzione» di Stefano Zecchi.
Il problema è complesso e, direttamente o indirettamente, investe trasversalmente tutta la popolazione. Chi come genitore, chi come nonno o zio o amico di famiglia.
Non intendo sorvolare sul dettaglio (solo apparente) che non sarà sfuggito al lettore attento: Zecchi e Bertirotti parlano di “istruzione”, io ho titolato “educazione”.
A mio modo di vedere sono due facce della stessa medaglia. Nonostante molti tendano a dissociare la cultura dall’educazione, io credo che i “maleducati” istruiti non possano propriamente definirsi còlti. Sono soltanto eruditi.
La cultura modifica il proprio modo di vedere le cose, di percepire la vita, di rapportarsi al mondo e agli altri. Tuttavia, ripeto, questo è il mio modo di vedere le cose.
L’educazione è un arduo compito che dovrebbe restare la priorità peculiare delle famiglie, come l’istruzione dovrebbe essere quello della Scuola. Attualmente assistiamo ad una confusione dei ruoli piuttosto singolare e non soltanto dal basso!
L’istituzione scolastica si è trasformata, specie nei gradi più bassi – ma non necessariamente meno importanti! – dell’istruzione in una sorta di “villaggio vacanze”, dove attività varie e variegate hanno (parzialmente) sostituito le attività d’insegnamento-apprendimento tradizionale.
Progetti sponsorizzati da banche ed organizzazioni varie e diverse, capaci di suffragare le endemiche carenze delle casse scolastiche, propongono nuoto, pittura, karate, danza, riciclaggio, pet-therapy, scoperta dell’Alzheimer… Attività che sottraggono tempo al banale, ma indispensabile, svolgimento del programma. Alcune di esse, se ben progettate e monitorate, possono stimolare ed arricchire il percorso conoscitivo dei bambini con effetti e ricadute più che benefiche. Tuttavia, senza entrare nel merito, potremmo dire che insegnare a leggere, insegnare a scrivere, insegnare a contare e – soprattutto – insegnare a pensare dovrebbero essere le priorità della nostra Scuola pubblica. Soprattutto a livello elementare.
I bambini, si dice, vanno sensibilizzati al diverso, educati alla tolleranza, invitati alla raccolta differenziata, perché diventino i buoni cittadini europei di domani. E si riversano sulle scuole computer e lavagne interattive multimediali che disabituano progressivamente i nostri pargoli al pensiero critico, alla riflessione autonoma e soprattutto alla fatica, indispensabile compagna di ogni conquista fisica e mentale. Su questo argomento rinvio all’articolo tematico che ho scritto per questa stessa testata dal titolo: «“E guardami quando ti parlo!” I pericoli del virtuale».
Al di là di scuole fatiscenti e dispersione scolastica che in certe regioni sono ben più che allarmanti, l’insegnamento subìto più che vissuto genera fenomeni preoccupanti. La classe docente, ormai – ricordiamolo – laureata anche a livello di Scuola primaria, continua a percepire stipendi il sociologo Gallino già negli anni Ottanta del secolo scorso definiva “di pura sopravvivenza”. Con una considerazione sociale conseguente.
La Scuola, cantiere di infinite riforme (sempre a costo zero), continua a produrre frutti discreti se, come spiega anche il collega Bertirotti, l’esodo in altre nazioni vede i nostri giovani protagonisti apprezzati.
Allora, se è vero – come scrive Zecchi su “Il Giornale” – troppi giovani non arrivano al diploma di scuola secondaria, la soluzione non è spedirglielo a casa al compimento del diciottesimo anno di età! Il problema sta nell’integrarli veramente in quel meccanismo virtuoso che è la Scuola, quando funziona. Renderli protagonisti di un sistema che ha un immenso bisogno di loro. Perchè, per citare sempre Zecchi « l’ignoranza diffusa è alla radice della diseguaglianza e della violenza ».
Come fare dunque a riformare un sistema che dal Trattato di Lisbona (a livello europeo!) ha pianificato il livellamento dell’istruzione? Come offrire a tutti quello che meritano per poi cogliere chi emergere e fargli occupare quei ruoli che possano risollevare il Paese? In una nazione in cui parlare di “merito” è una bestemmia, mi sembra difficile far cogliere lo spirito dell’art. 34 della Carta costituzionale che recita, tra l’altro: « I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi ». I padri costituenti pensarono da statisti e non da politici! Giganti in un Paese di nani.
Da quanto tempo il pianeta scuola non funziona più come dovrebbe? Lustri, decenni e forse più. Basti pensare che i genitori degli allievi che picchiano gli insegnanti, li insultano e li vilipendiano, sono stati “formati” proprio nelle nostre scuole!
A seguito di queste riflessioni, del collega Bertirotti e mie, mi permetterei di sollecitare reazioni da parte dei nostri lettori che – e vengo al senso del titolo – diano modo di aprire una tavola rotonda sulla questione.
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Gli Scomunicati è una testata giornalistica fondata nel 2006 dalla giornalista Emilia Urso Anfuso, totalmente autofinanziata. Non riceve proventi pubblici e non ha mai ricevuto finanziamenti privati.
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